L’Italia è il terzo paese per numero di donne nella ricerca: la testimonianza di una giovane dottoressa

Ai tempi di Margherita Hack, nata a Firenze nel 1922, per una donna studiare fisica era un atto rivoluzionario e quasi senza precedenti. Oggi le cose sono diverse, anche se la strada da percorrere è ancora molta. Ne parliamo con Jessica Costa, ricercatrice dell’Università di Siena.

Il report “Gender in research” di Elsevier, pubblicato di recente, porta una buona notizia all’Italia: il bel paese si classifica infatti terzo per numero di donne nella ricerca. Spagna, Portogallo (entrambe con il 48%) e Italia (con il 44%) sono i tre paesi in cui c’è più equità a livello numerico fra uomini e donne nella ricerca. Ma sarà un’uguaglianza anche fattuale? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Jessica Costa, una giovane ricercatrice nel mondo STEM (Scienza, Tecnologia, Matematica e Ingegneria), nel quale di solito le donne di solito sono una minoranza.

Da quanto sei ricercatrice?

Lavoro nell’ambito della ricerca accademica, quindi universitaria, da cinque anni. Dopo i tre anni di dottorato di ricerca in Scienze chimiche e farmaceutiche, ho vinto un assegno di ricerca di due anni in Chimica fisica.

Di cosa ti occupi nello specifico?

Mi occupo di biocatalisi, sviluppo e caratterizzazione di biomateriali. Attualmente lavoro per un progetto finanziato dall’Unione europea che prevede la realizzazione di bioplastiche a partire dal guscio dei gamberetti.

Che cambiamenti ha comportato questa scelta e che conseguenze ha avuto sulla tua vita?

Cambiamenti sostanziali non ne ha portati, perché sono rimasta nell’ambito universitario. Sono cambiati i ruoli rispetto a quando studiavo, ma è stata una cosa continuativa: sono sempre all’università a lavorare, quindi grossi cambiamenti da quando ero una studentessa non ne ho fatti. Il cambiamento più grande è stato prima dell’università perché sono andata a studiare e a vivere lontana dalla mia famiglia.

Più che altro dopo la laurea sarei potuta entrare a lavorare in un’azienda, mentre io ho scelto di fare ricerca perché mi piaceva, lo trovavo molto affascinante: è un lavoro dinamico, puoi scoprire sempre cose nuove e questo mi dà molta soddisfazione.

Ho scelto di fare ricerca nonostante l’insicurezza, perché fare ricerca in Italia significa anche essere precari, i contratti sono a tempo determinato e questa è la cosa che impatta di più nella mia vita. Non ho nessuna sicurezza, so quest’anno dove sono e cosa faccio, ma il prossimo chissà. Una delle cose più impattanti nella mia vita è proprio la precarietà, ed è un problema soprattutto italiano. È una cosa risaputa, in azienda o in farmacia dopo un anno di solito hai l’indeterminato, a livello accademico la strada è molto più lunga.

In Italia le ricercatrici, considerando tutti i settori, sono quasi la metà del totale. Nel tuo dipartimento siete più donne o uomini?

In realtà il numero è equo, forse addirittura più donne, nonostante sia un dipartimento di chimica e farmacia e la chimica un tempo fosse prettamente maschile.

Qual è il tuo rapporto con le altre ricercatrici?

C’è un bel rapporto, di collaborazione, lavoriamo bene insieme. Nel mio gruppo di ricerca siamo tutte donne, anche il mio capo. Ho conosciuto diverse altre ricercatrici donne e non faccio distinzione fra ricercatrici e ricercatori, ma non lo fanno neppure loro. Penso ormai da questo punto di vista che la disparità fra uomo e donna sia diminuita.

Ti sono mai capitati episodi in cui non ti sei sentita presa sul serio o sei stata sottostimata?

Non mi è mai capitato. Ormai, almeno nel mio settore, non c’è nessuna distinzione fra uomo e donna. Ho sentito raccontare da alcune professoresse con più esperienza di me di episodi accaduti all’inizio della loro carriera, ma adesso per fortuna non è più così.

In tutta l’Unione europea la disparità economica fra ricercatori e ricercatrici è del 15%, mentre in Italia “solo” del 7%. Nella tua esperienza esiste un gender gap (economico ma non solo) e che peso ha?

Per quanto riguarda l’aspetto economico, io sono una ricercatrice statale, quindi lo stipendio è fisso, non ci può essere una disparità, da noi almeno.

Nonostante la mia esperienza positiva rimangono però dei limiti. Secondo me la disparità uomo-donna è diminuita, ma non è scomparsa. È come velata: non si vede, però delle differenze ci sono, come per la maternità, che spesso è un motivo di discriminazione verso le donne, anche nelle aziende e non solo nel mondo della ricerca accademica.

La donna non è supportata e si trova spesso a decidere fra la carriera e la famiglia per la mancanza di strutture esterne e statali che dovrebbero garantire un minimo di appoggio, diversamente da quello che succede in nord Europa. In Italia invece rimane un deficit.

Di tutte le ricercatrici, che sono praticamente la metà del totale, solo il 20% riesce a raggiungere posizioni di leadership nel mondo STEM. Vedi possibile per te e per una donna raggiungere i vertici nel tuo settore?

Decisamente sì, forse anche perché sono circondata da esempi positivi. Ad esempio la direttrice del mio dipartimento è una donna, così come quella precedente.