Perché parlo da solo?

Parli da solo? Ne abbiamo parlato (appunto) con uno psicologo. Ecco che tipo di persona sei

‘Il nostro dialogo interno cambia in virtù della tua età  e della capacità  di dare forma a ciò che pensi’. Inizia così la mia conversazione con Luca Battiloni, psicologo e psicoterapeuta, che avevo già  incontrato poco più di un anno fa (quando “mascherine”, “lockdown”, “quarantena” erano termini che non appartenevano al nostro linguaggio quotidiano) e che si era tradotto in un articolo sulle tecniche di meditazione all’aperto. Mi ospita nel suo studio e stavolta l’incontro parte da una domanda, ‘Perché parlo da solo?‘, a cui mi è stato richiesto di rispondere approfondendo l’argomento ma che, per incidens, è un dubbio che mi riguarda.

E non solo me.

Io parlo da solo

Non ricordo esattamente quando ho iniziato a parlare da solo, né quanto spesso lo faccio, ma sicuramente ero arrabbiato con qualcuno o qualcosa. In questo periodo pandemico però, nel quale la mascherina è diventata anche uno strumento sotto il quale nascondere il proprio labiale, mi sono trovato numerose volte in macchina a fare ragionamenti ad alta voce, interpellandomi anche in terza persona, scaricando talvolta la rabbia.

‘Fa bene quando si è in macchina scaricare la rabbia. – mi dirà  a un certo punto della nostra chiacchierata Luca – La rabbia ha bisogno di essere scaricata’.

A volte, vi confesso, in queste situazioni ho pensato di essere un po’ matto (e forse lo sono davvero, in ogni caso). E chi meglio di uno psicologo per togliermi questo dubbio?

Parlare da soli: genio o follia?

‘Se parli da solo sei schizofrenico, questo è il classico – sottolinea Luca – ma in verità  sei schizofrenico se dentro hai un quadro più complesso. Parlare da soli non è assolutamente un problema, anzi è sintomo di una certa cognitività , di una certa razionalità e capacità  intellettiva. Ovvio che dipende da che tipo di dialogo ho’.

Il che ci porta al senso della parola “maledire” non nella sua accezione spirituale ma in quella del suo significato più letterale del “dir male”, “parlare male”. ‘Il vero benedire o maledire dipendono dal tipo di vibrazioni che io assumo in certe tonalità  di certe parole. Alcune di queste ultime sono cacofoniche per il nostro benessere, come dirsi ‘mi faccio schifo!’, ‘Sono sbagliato!’. Le maledizioni partono dalla mente, dal come noi pensiamo noi stessi. Maledire è “dire male” e quindi pensare male’.

La nostra chiacchierata sbanda per un attimo su chi i pensieri non si limita a buttarli fuori in conversazioni solitarie ma gli da un ordine su carta. ‘I grandi scrittori sono grandi pensatori – conclude Luca, parlando della sottile linea tra genio e follia – anche se molte volte è difficile per lo stesso scrittore riuscire a dare un ordine a quello che sente dentro. Ma il buttar fuori è un bisogno, non è un piacere. Lo stesso vale per un grande pensatore che ha bisogno magari di parlare con sé stesso, ha confusione in testa e deve dargli un ordine’.

L’importanza di parlare da soli (e senza senso)

Parlare da soli, ‘mettere fuori quello che è dentro, ci permette di fare ordine, creando una distanza con l’oggetto del nostro pensiero e scaricare a livello tensivo’.

‘Può servire a definire l’identità  di una persona?’ gli chiedo, sperando in una risposta positiva che confermi la funzionalità  del mio parlare da solo.

‘Si. Il parlare da solo – mi risponde Luca – può aiutare poi a definire l’identità di una persona, le sue priorità’ anche se ‘noi diamo troppo senso alle parole e ai significati che ci stanno dietro. Il nostro dialogo interno è sempre molto razionale e focalizzato su quello che dovremmo o non dovremmo fare, se viviamo bene o male’. ‘Per questo – mi spiega – parlare senza senza senso ci fa tornare in una parte un po’ animale che è la parte esistenziale’.

L’esempio che mi porta è quello del Gibberish, termine inglese che significa “borbottare senza senso” e che in italiano trova il suo corrispettivo nel Grammelot, strumento teatrale che pare affondare le sue radici nella commedia dell’arte. Utilizzato anche come esercizio di recitazione (lo recuperò Dario Fo per l’opera ‘Mistero Buffo’ ad esempio), il Gibberish, come ha detto Osho a riguardo, ‘serve a liberarsi dalla mente attiva’ ed è ‘il primo passo per la meditazione’. ‘Un esercizio piacevole, gioioso’ per cui ‘non c’è nulla di cui preoccuparsi, puoi andare in profondità  quanto vuoi…[…] Nessuno ti sta a sentire, puoi dire tutto ciò che vuoi, non offenderai nessuno. Non c’è nessun altro che te. Questo ti renderà  più sano di quanto tu sia mai stato, perché vorrà  dire buttar via tutta quella immondizia che portavi con te’.

‘Il parlare senza senso, magari lingue che non conosci, ti riporta all’esistenza, – mi spiega Luca – ti riporta al concetto di essere vivente in questo mondo che é diverso da quello sociale, mentale e razionale. Buttare fuori così ci riporta a una leggerezza sociale, a una profondità  esistenziale. Siamo all’interno di una società  che prevede un certo tipo di pensiero e azione. Se noi ne usciamo questo ci permette di sdrammatizzare su quello che è un po’ il concetto di vita, di successo e di felicità’.

Stoppo la registrazione della nostra conversazione, lo ringrazio e mi faccio bagnare dal sole di una giornata particolarmente clemente, dopo qualcuna caratterizzata dal brutto tempo e dal freddo pungente. Una volta in macchina, con la mascherina tirata su a coprirmi naso e bocca, inizio a ragionare su come mettere ordine a tutte le cose che mi ha detto. Lo faccio ad alta voce.

Vuoi vedere che sono un genio e non lo sapevo?