Sport estremi, perché li facciamo ?
Perché alcune persone praticano sport estremi ? Cosa si muove in loro?
Paracadutismo, canyoning, bungee jumping, alpinismo (che comprende attività quali l’arrampicata su roccia, su cascate di ghiaccio, lo sci alpinismo, il freeride) sono alcuni tra gli sport considerati estremi.
La Motivazione
La psicologia da sempre studia e si interroga circa i fenomeni che stanno alla base del comportamento umano e, in questo contesto specifico, si chiede quale sia la motivazione che spinge una persona a scegliere un’attività sportiva considerata estrema, tale da poter, talvolta, mettere a repentaglio la vita.
Una prima specificazione psicologica in tal contesto riguarda il concetto di motivazione:
la motivazione è una spinta che ci muove verso il raggiungimento di un determinato obiettivo e, quella che sembra appartenere a chi pratica sport estremi, è una motivazione di tipo intrinseco:
“un comportamento può essere definito motivato intrinsecamente quando è determinato ed autonomo, in contrapposizione a una condotta controllata dall’esterno”. (Deci e Ryan, 1980,1987)
Con questa affermazione gli psicologi americani Deci e Ryan, dell’Università di Rochester, spiegano che una condotta autodeterminata si verifica quando la persona che la compie si percepisce autonoma nelle scelte e competente nell’esercitare le proprie capacità, ha una buona autostima, trae piacere e gratificazione dall’attività in sé e nulla di quello che fa è guidato dall’esterno come ad esempio dalla pressione del pubblico, degli sponsor o dal dover vincere una gara per primeggiare sugli altri concorrenti.
L’esperienza di Flusso
Tra le tipologie di motivazione intrinseca rientra “l’Esperienza di Flow” in italiano “di flusso” che fa riferimento a quelle attività che sono di per sé soddisfacenti, ossia tutti i casi in cui la coscienza è completamente assorbita dall’esecuzione dell’attività stessa e l’attività fluisce senza ostacoli, con una concentrazione quasi automatica, tanto da vivere una sorta di assenza di percezione temporale. (Csikszentmihalyi, 1975;1992)
Per semplificare con un esempio: siamo talmente immersi nella lettura di un libro da non renderci conto di quanto tempo sia passato da quando abbiamo iniziato a leggere e ci stupiamo di essere stati delle ore senza staccare gli occhi dalle pagine.
Csikszentmihaly, psicologo ungherese, autore della teoria del flusso, ha osservato come l’esperienza di flow, appartenga agli scalatori che in una frazione di secondo devono operare scelte rapidissime e di una precisione tale da non percepire nulla al di fuori dell’azione stessa, tantomeno lo scorrere del tempo.
Ma cosa rende una attività davvero rischiosa?
Numerose teorie psicologiche si sono susseguite per trovare delle risposte a tali fenomeni e alcune concordano nel definire che un’azione o attività è rischiosa solamente quando il suo corso può implicare una perdita. Non solo c’è un’incertezza circa il raggiungimento del risultato ma anche la possibilità di trovarsi alla fine dell’azione con qualcosa in meno di quanto si aveva all’inizio; ciò rende davvero rischiosa una attività.
Per quanto riguarda gli sport estremi secondo alcuni teorici l’incertezza del risultato funge da spinta verso quel tipo di attività rischiosa perché gli stimoli, l’eccitazione e la tensione vissuti sono dati da un elemento incalcolabile della situazione che può decidere se si vincerà o se si perderà.
Citando Rheinberg, insegnante di psicologia presso l’Università di Potsdam, “gli sport rischiosi hanno un tratto in comune, cioè il fatto che i valori più alti, l’incolumità fisica, nel peggiore dei casi la vita stessa, vengono posti in una condizione di insicurezza, senza che l’attività sia volta ad un risultato dal cui raggiungimento possano nascere vantaggi particolari. Al contrario, gli sportivi più appassionati devono sborsare parecchi soldi per attrezzatura e viaggi. Essi investono inoltre tempo e fatica e non raramente incontrano difficoltà con la/il partner che si sente trascurata/o, e, a ragione, si preoccupa”
La ricerca di sensazioni ed impressioni
Un’altra spiegazione relativa alla motivazione che spinge alcune persone allo svolgimento di attività rischiose deriva dalle teorizzazioni di Zuckerman, professore emerito dell’università di Delaware che tra gli anni ‘70 e ‘80 identificò le 4 componenti della cosiddetta “sensation seeking” in italiano traducibile con il bisogno di alcune persone di ricercare sensazioni e impressioni varie, nuove e complesse, unito alla disponibilità di accollarsi, proprio per amore di esse, rischi fisici e sociali.
Ricerca di brivido ed avventura, tendenza a provare nuove esperienze, disinibizione e inclinazione a evitare attività e situazioni vissute come monotone e ripetitive, sono gli ingredienti che compongono la sensation seeking.
La competenza
Ricercare sensazioni e impressioni in ambito sportivo richiede che l’individuo si auto percepisca come in grado di poter affrontare una situazione e quindi tanto più una persona si percepisce competente tanto più sarà disposta ad assumersi un rischio e ciò accentuerà la percezione del soggetto di essere in grado di riuscire nell’azione.
L’eccitazione si aggiunge come termometro della percezione della capacità del soggetto di sentirsi competente, facendogli comprendere la fondamentale importanza della sua abilità per la sopravvivenza stessa.
Per superare ogni teorizzazione, ho posto alcune domande ad una Guida Alpina, Nicola Tondini, classe ‘73, dal 2001 istruttore Nazionale delle Guide Alpine, co-fondatore della scuola di Guide Alpine “XMountain” a Verona con, alle spalle, una lunga carriera da alpinista e scalatore. Ha aperto numerosissime vie di arrampicata in Dolomiti di altissimo livello e difficoltà.
Perché hai iniziato a praticare gli sport di montagna e ti sei appassionato all’alpinismo?
Ho avuto la fortuna di passare i mesi estivi in Dolomiti da quando praticamente sono nato. La bellezza di quei posti mi affascinava. Ricordo che già a 8 anni sognavo di scalare le montagne. Giocavo con gli altri bambini a fare l’alpinista che nel tentativo di arrivare in cima incorre in tante situazioni di pericolo come cadute, bufere ecc. Poi ogni grosso masso incontrato nelle gite era da scalare. Avevo letto un libro di Messner e quello che mi attraeva era questo partire verso l’ignoto. Anelare a salire una cima o scalare una parete senza sapere se il risultato ci sarebbe stato o se si sarebbe dovuti tornare indietro. Mi sono appassionato perché lo scalare le montagne mi faceva entrare in una dimensione completamente scollegata dalla realtà orizzontale che tutti vivono.
Consideri l’alpinismo uno sport estremo?
L’alpinismo è innanzitutto avventura e l’avventura c’è quando si parte con l’incognita sulla riuscita, ma non solo. In tutti gli sport un atleta non sa se riuscirà a vincere o meno, ma nell’alpinismo l’incognita comprende anche molti altri aspetti: la capacità di reggere fisicamente allo sforzo, la capacità di reggere mentalmente e psicologicamente sia allo sforzo fisico ma anche al rischio a cui ci si espone, la possibilità o meno di potersi ritirare, la capacità di rimanere fedeli allo stile che si vuole perseguire, la capacità di rinunciare a mezzi che possono rendere tutto più facile. Se inteso così l’alpinismo è uno sport estremo: pone il corpo e la mente al limite. Ma voglio precisare che per fare del vero alpinismo estremo, non è necessario, personalmente, mettersi nelle condizioni che l’insuccesso sia la perdita della propria vita. Ci sono alcune attività, anche legate all’alpinismo, che, scegliendo di rinunciare ad ogni tipo di protezione per la vita, hanno solo due opzioni: la riuscita o la morte. Come può essere il free solo. Ma sarebbe riduttivo ricondurre il concetto di estremo a questo singolo caso.
Come percepisci il rischio durante una delle tue scalate in parete?
Lo percepisco come qualcosa da saper gestire. Mi attrae moltissimo il mettermi in gioco a gestire situazione rischiose. Per gestirle è necessario avere una grande consapevolezza di sé e delle proprie capacità, in relazione all’ambiente in cui ci si immerge. Mi piace il rischio quando dipende molto dalla mie capacità e poco dalle situazioni oggettive. Evito il più possibile il rischio “oggettivo”, ovvero quelle situazioni in cui una valutazione sbagliata implichi la vita stessa. Questo significa evitare situazioni di pericolo conclamato. Non rinuncio invece a mettermi in gioco fino in fondo quando il rischio dipende da me stesso. L’alpinismo svolto in questo modo ti espone al rischio di ritrovarti alla fine con qualcosa in meno. Puoi ritrovarti privo di forze, senza l’eccitazione della riuscita, o completamente svuotato psicologicamente. E sono più le volte che si rientra a casa con le “pive nel sacco”, con lo sconforto, con la certezza che aumenta l’idea di stare a buttare via il proprio tempo. Ma è in quello svuotamento che si ha la possibilità di percepire quali sono le cose importanti della vita. Rischiando si ha più consapevolezza di quello che si ha e di quello che si è. Si assapora la propria limitatezza.
Quali sono le emozioni che vivi mentre arrampichi?
Quando arrampico provo l’emozione della gioia. Gioia data dal provare piacere nel sentire l’armonia del gesto fisico unito concentrazione mentale. Il mio “io” è come se si auto-percepisse in tutta la sua dimensione sia corporea che mentale; è come assorbisse l’ambiente e lo spazio (fatto anche di vuoto) che lo circonda. E in questo vivo un arricchimento spirituale.
C’è qualcosa che fai o dici prima di partire per una via?
Prima di partire per una via, soprattutto se impegnativa, durante l’avvicinamento rimango in silenzio e permetto al mio corpo di assorbire quello che lo circonda. Cerco di creare un tutt’uno tra corpo, mente e spirito. E un istante prima di partire rivolgo un ringraziamento a Dio per la possibilità che ho di vivere quei momenti.
“Cancellare ieri e domani e vivere solo il presente, l’essere in movimento in quell’attimo. Senza la nozione di tempo, come su un altro pianeta”
Reinhold Messner