Morbo di Parkinson: si può curare il dolore con la cannabis?

Intervista al Dott. Marco Bertolotto sull'utilizzo dei cannabinoidi nel trattamento del dolore cronico.

Intervista Dott Bertolotto uso cannabis terapeutica

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    Poco tempo fa vi avevamo parlato delle proprietà curative del cannabidiolo (CBD), metabolita della Cannabis sativa, dagli effetti rilassanti e antinfiammatori.

    Alcuni studi hanno dimostrato un miglioramento dei malati con Parkinson trattati con CBD; vediamo cos’è il morbo di Parkinson e, attraverso le parole del Dott. Marco Bertolotto, come la cannabis riesce a ridurre l’infiammazione provocata dalla malattia.

    Malattia di Parkinson

    La malattia di Parkinson, nota anche come morbo di Parkinson, è una malattia neurodegenerativa, i cui sintomi vanno dall’insufficienza autonomica fino a difficoltà sensoriali. La malattia progredisce con il tempo e le cause che portano alla morte sono ancora sconosciute.

    Attualmente non esiste una cura, ma si sono diffusi diversi trattamenti farmacologici in grado di ridurre i sintomi, portando sollievo a chi ne soffre. Tra le terapie alternative e quelle tradizionali (come il Levodopa, ampiamente usato a partire dagli anni settanta) c’è anche quella a base di cannabis.

    Ne abbiamo parlato con il Dott. Marco Bertolotto.

    ‘Esperto di Cannabis per uso terapeutico’, come riportato sul suo sito personale, il Dott. Marco Bertolotto è la persona che abbiamo contattato per affrontare il tema dell’utilizzo di cannabinoidi nelle terapie per contrastare il Parkinson. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per approfondire l’argomento, anche attraverso una fotografia dell’attuale situazione legislativa italiana in materia.

    Buongiorno Dott. Bertolotto, come e perché la cannabis può essere un metodo efficace per curare il Parkinson?

    Consideri che nelle persone che hanno malattie neurodegenerative c’è un processo in corso. La microglia, una delle prime linee di difesa del cervello, va in iperfunzione e si ritrova in assetto infiammatorio. La cannabis, sia CBD che THC, riesce a fermare questo processo, riducendo l’infiammazione. Io, ad esempio, uso spesso la combinazione di THC e CBD, prescrivendo l’utilizzo di olio di cannabis più volte al giorno, in modo tale da mantenere un livello discreto di cannabinoidi nel sangue. Ci sono comunque molti studi interessanti a riguardo, anche italiani, che dimostrano come l’uso di cannabis riduca tremori e rigidità, che sono i due sintomi più importanti e invalidanti nel paziente con il Parkinson. Il farmaco classico crea spesso una sorta di assuefazione e non funziona più, ha effetti collaterali come le allucinazioni e tante volte deve essere sospeso.

    Come dichiara nella presentazione sul suo sito ufficiale, la sua ambizione è quella di diffondere il tema della cannabis terapeutica, creando uno spazio di discussione con le persone ammalate. A che punto è, dalla sua prospettiva, il dibattito su scala nazionale su questo tema? 

    In Italia la legge sulla cannabis terapeutica è arrivata nel 2014. Siamo stati forse i primi in Europa e nel mondo ed è una delle migliori leggi che ci sono da questo punto di vista; il problema è che siamo rimasti fermi là. All’epoca sembrava che fossimo veramente vicini alla soluzione finale, tanto è vero che tra il 2014 e il 2016 arrivarono in Italia tutti i più grossi produttori di cannabis terapeutica presenti al mondo (israeliani, canadesi, nordamericani, olandesi), perché pensavano che fosse questo il punto da cui partire ma gli abbiamo mandati via tutti, come facciamo sempre. È una buona legge che non siamo riusciti ad attuare e che permetterebbe a tutti coloro che hanno bisogno di una terapia con la cannabis di avere effettivamente un accesso alla terapia.

    Un mese fa (27 aprile 2021, ndr) la sentenza di Walter Di Benedetto non ha aggiunto nulla, nonostante in molti abbiano esultato per quel risultato. Di fatto è una delle tante sentenze che dicono che coloro che sono ammalati possono assumere la cannabis anche se è stata prodotta in modo non legale, che però non significa che uno può prodursi la cannabis. Da un punto di vista medico, poi, una persona ha bisogno di essere seguita da un medico e le medicine devono essere certificate, prodotte in base agli standard, sicure e accessibili. Non si può pensare che uno si possa produrre il proprio farmaco, non esiste.

    Cosa andrebbe fatto dal punto di vista legislativo?

    Con la legge che abbiamo basterebbe veramente poco, modificare tre virgole, e saremmo pronti per essere il punto di riferimento per tutto il mondo; siamo uno Stato tecnologicamente avanzato, abbiamo un sistema sanitario e tutte le condizioni per dire ‘Partiamo alla grande!’, facciamo noi da capofila e invece è tutto fermo lì, nessuno in questi anni ha avuto attenzioni per queste persone ammalate. Oltre al Parkinson, inoltre, che colpisce sempre più anche i più giovani, ci sono tutta una serie di malattie neurodegenerative per le quali le persone trovano sollievo solo dall’assunzione della cannabis, dopo aver provato tutti gli altri farmaci senza risultato.

    Oltre all’utilizzo di cannabinoidi, nella cura al Parkison, lei sottolinea l’importanza di una corretta dieta e dell’attività fisica. Come concorrono a migliorare le condizioni del paziente?

    Come le dicevo prima una delle cose che avvengono nei cervelli di questi pazienti con malattie neurodegenerative è, semplificando molto, un processo di neuroinfiammazione del sistema del sistema nervoso. La dieta sicuramente interviene sull’integrità del nostro cervello.

    In che modo?

    In due modi. Il primo è nutrendo bene i miliardi di batteri che sono nostri ospiti ma con cui abbiamo fatto una sorta di “accordo” per fargli svolgere un lavoro per conto nostro. L’uomo è estremamente complesso, non riesce a fare tutto da solo e certe cose le facciamo fare fuori dai “confini”. Questi batteri per lavorare bene devono essere, come detto, nutriti bene. Se non lo facciamo si ammalano e prevalgono batteri che non dovrebbero esserci; si danneggia così la membrana che separa l’intestino dal sangue ed entrano in circolo sostanze dannose che vanno a danneggiare anche la barriera emato-encefalica, quella cioè che difende il cervello dall’ingresso di sostanze che possono essere nocive.

    Se noi abbiamo un’alimentazione sbagliata, l’intestino lavora come non dovrebbe lavorare e il cervello ne risente. Non è un caso se qualcuno parla di intestino come secondo cervello.

    E l’altro modo?

    L’altro aspetto riguarda la nostra attuale dieta, troppa ricca di carboidrati. Questi ultimi li trasformiamo in zucchero, in glucosio, e per essere smaltiti bisogna usare l’insulina. L’insulina da una reazione particolare nelle cellule, stimola una serie di chinasi, una cascata di enzimi che uccidono la cellula. Consideriamo che l’insulina serve per la crescita e per farlo stimola degli enzimi che la favoriscono ma che sono proinfiammatori. Un paziente che ha un inizio di Parkinson ma anche chi vuole prevenirlo, insieme a tutte le malattie neurodegenerative, dovrebbe avere una dieta bassa di carboidrati, con po’ di proteina, e ricca di grassi buoni.

    Ricordiamoci che il nostro cervello è una sorta di circuito elettrico messo a bagno nel grasso, in un panetto di burro, e quindi se noi non manteniamo un livello corretto di grassi, di grassi buoni, ne patisce. L’alimentazione è fondamentale e molti migliorano le condizioni del Parkinson già solo con la dieta, specialmente nelle fasi iniziali. Bisognerebbe sempre cercare di anticipare i sintomi ma quando arrivano è fondamentale cominciare a mettere in piedi una strategia che preveda una salutare alimentazione e un corretto stile di vita.

    E per quanto riguarda l’attività fisica?

    Fa parte dello stile di vita. Noi siamo animali da movimento, non siamo fatti per stare fermi, e anche il movimento è legato alle funzioni cerebrali. Poi se uno ha uno stile di vita dove beve, si riempie di sostanze tossiche, è evidente che il suo corpo va in una condizione di stress ossidativo e il primo a patire è il cervello. Modificare lo stile di vita, però, è una delle cose più difficili che possiamo fare. Siamo più abituati a prendere una pastiglia che a modificare lo stile di vita.

    Le va di portarci qualche esempio, in base alla sua esperienza, del miglioramento della qualità della vita di pazienti che utilizzano la terapia con Cannabis?

    Un primo esempio che posso farle è quello di un paziente che ha un’azienda e che ogni volta che si trova a parlare con i clienti trema. Si trova davanti a una persona con la quale deve iniziare una relazione e ha timore di cominciare. A lui io do la cannabis in olio e gli ho consigliato, prima di cominciare una riunione, prima di presentare il suo prodotto, di utilizzare la cannabis per via inalatoria, in modo tale da rilassarsi. Mi ha detto che in questo modo ci ha guadagnato da due punti di vista. Innanzitutto non trema e questo non lo mette in una condizione di imbarazzo nei confronti del cliente, che non ha così il pregiudizio di trovarsi di fronte a una persona malata; secondariamente quando fuma la cannabis si sente più sciolto, anche di testa, riesce a essere più propositivo e questo gli innesca un’euforia che gli permette di migliorare le performance.

    Poi ho un altro paziente che fa il parrucchiere. Per lui, evidentemente, i tremori sono problematici e li controlla molto bene con la cannabis. Sicuramente queste persone trovano beneficio dall’uso della cannabis.

    Quali sono i suoi consigli che da ai suoi pazienti, rispetto alle dosi di cannabis da utilizzare?

    Prima di tutto consiglio di mettersi nelle mani di dottori, colleghi, che conoscono il tema cannabis.

    Come diceva già Paracelso (alchimista e medico svizzero, ndr) quello che determina se qualcosa è un veleno o è la cura è il dosaggio. I dosaggi sono individuali, come per altri farmaci, proprio perché agiscono sul sistema endocannabinoide e ognuno di noi ne ha uno che varia nel corso del tempo, addirittura della giornata. È un sistema che si sviluppa all’interno delle membrane cellulari a seconda delle oscillazioni che hanno queste membrane e che si attiva o non si attiva. L’introduzione di cannabis dipende quindi dal sistema endocannabinoide, dall’attivazione che si ha e dal tipo di alimentazioni che si segue. Si tratta di una serie di fattori che solamente un medico preparato su questo tema conosce e quindi, ripeto, il mio consiglio è quello di mettersi nelle mani di un professionista che conosce la cannabis e il sistema endocannabinoide. Facendo così non ci sono rischi’.

    ‘Io so che quando ho un paziente davanti, questo mette la sua salute nelle mie mani. – mi dice prima di concludere la nostra intervista – Uno che studia medicina lo fa per anni. Non ti curi andando su Internet’. 

    Ringraziamo il Dott. Marco Bertolotto per la sua disponibilità.

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