Tumori del sangue, in arrivo gli anticorpi a doppia azione

Una ricerca di Torino promette ottimi risultati per i pazienti che non possono essere sottoposti ad altre cure. Allo studio anche la proteina PI3K

nuove cure linfomi non-hodgkins

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    Dall’Irccs Candiolo di Torino arrivano due belle notizie sul fronte della ricerca contro i tumori. La prima riguarda l’uso di anticorpi di ultima generazione nell’ambito della cura mentre la seconda si concentra sullo studio della proteina PI3K e il ruolo inibitorio che svolge rispetto allo sviluppo della massa tumorale. Vediamole nel dettaglio.

    Nuove cure per i linfomi non-Hodgkins

    I protagonisti della prima ricerca sono gli anticorpi detti “bispecifici”, ovvero a doppia azione: da un lato colpiscono le cellule malate e dall’altro stimolano direttamente il risveglio del sistema immunitario della persona in questione. In base agli esperimenti dei ricercatori dell’istituto Candiolo, questa cura con anticorpi sarebbe efficace anche sui linfomi a cellule B, i più comuni dei linfomi non-Hodgkins.
    Si tratta di un tumore che interessa il sistema linfatico di una persona, ha origine cioè nei linfociti contenuti nel sangue e si diffonde attraverso i tessuti di milza, midollo, tonsille e altre aree dell’organismo. Sono state identificate circa 30 tipologie differente di questo tumore e in particolare, il linfoma a cellule B, sembra avere una natura particolarmente aggressiva: quasi 4400 persone all’anno ne soffrono solo in Italia, per lo più adulti.

    Perché proprio gli anticorpi

    Il problema fondamentale è che il 35% dei malati non risponde ai trattamenti antitumorali standard o, se anche sembrano migliorare in un primo momento, sviluppano spesso recidive nel periodo successivo alla cura. È proprio qui che entrano in gioco gli anticorpi bispecifici studiati dall’istituto Candiolo. La loro particolarità sarebbe quella di stimolare  e riattivare le cellule T del sistema immunitario, un’azione aggiuntiva rispetto a quella delle cure classiche che si limitano a colpire le cellule tumorali. “I protocolli sperimentali di terapia – ha spiegato Umberto Vitolo, Ematologia-oncologia medica IRCCS Candiolo e coordinatore degli studi oncoematologici – si concentrano soprattutto nei pazienti con linfoma a cellule B che hanno fallito la terapia di prima linea e non possono, per ragioni di età o perché il paziente soffre anche di altre malattie, essere trattati con trapianto di cellule staminali o con CAR-T (acronimo di Chimeric Antigen Receptor-T, antigene recettore capace di riconoscere le cellule tumorali una volta immesso nel circuito sanguigno)”.
    Inoltre, è vicina l’approvazione per l’Italia di un anticorpo adatto specificatamente a pazienti che hanno avuto per la prima volta una diagnosi di linfoma, in forma estremamente aggressiva. L’idea, secondo quanto riportato dall’istituto torinese, è capire se, mischiando particolari anticorpi monoclonali anti-CD19 (antigene di cellule B) alla chemioimmunoterapia standard, migliorano i tassi di guarigione.

    Inibire la crescita del tumore

    Sempre dai laboratori dell’istituto Candiolo di Torino – ma non solo, perché questa volta la sperimentazione è portata avanti in più centri che si occupano di ricerca contro il cancro – arriva anche un altro fronte di studi nel campo dello sviluppo di cellule tumorali. Si tratta di capire il funzionamento di un inibitore: la proteina PIRK. Questa, che normalmente promuove la crescita del tumore, se usata insieme alla cura immuno-chemioterapica potrebbe avere il ruolo inverso, potrebbe cioè inibire la riproduzione di cellule malate. In questo caso si tratta, in poche parole, di potenziare la terapia già esistente. “L’inibitore di PI3K – spiega ancora Umberto Vitolo – è una piccola molecola che funziona ‘appiccicando’ sulla proteina bersaglio dei piccoli gruppi chimici, così da bloccarne l’azione” e favorire in questo modo la morte della cellula linfomatosa.
    Su questa scia, recentemente è stata avviata un’ulteriore ricerca su nuovi biomarcatori relativi ai linfomi a cellule B più resistenti. Si parte dallo studio di Dna e Rna delle cellule linfomatose e dall’integrazione di queste informazioni con parametri funzionali della malattia raccolti grazie alla PET (tomografia a emissione di positroni, dall’inglese Positron Emission Tomography, tecnica diagnostica di medicina nucleare utilizzata per la produzione di bioimmagini) e lo scopo è individuare nuove alterazioni molecolari e cromosomiche utili ad acquisire nuove conoscenze rispetto ai linfomi non-Hodgkins.
    Le carte in tavola sono tante, speriamo che la ricerca italiana arrivi quanto prima a nuove conclusioni utili per tutti.

    Fonti

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