Che cos’è la società della performance?

Partendo dal libro ‘La società della performance’, dei filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici, proviamo a capire di cosa si tratta e come uscirne

Società Performance

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    Da ormai qualche anno a questa parte, molti di noi, sono (più o meno consapevolmente) immersi in un immenso flusso narrativo che ha come sfondo e mezzo l’universo dei social. Che si pubblichi con regolarità o meno, Facebook, Instagram, Twitter e via dicendo, ci hanno trasformato in “performer” nella creazione di contenuti, autori di un’ auto-narrazione filtrata in base a quello che decidiamo di mettere in piazza della nostra esistenza.

    Dare un’immagine idealizzata di noi stessi è lo scopo finale della società della performance, concetto sviluppato nell’omonimo libro dagli scrittori e filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Proprio toccando alcuni passaggi chiave di questa pubblicazione del 2018 cerchiamo di capire meglio cos’è la società della performance e come poterne uscire.

    Cos’è la società della performance 

    Ma di cosa parliamo quando parliamo di performance? Se facessimo un breve sondaggio sarebbero certamente in molti ad associarla a una prestazione professionale, sportiva e (perché no) sessuale.  Se però guardiamo ai nostri antenati, dove peraltro prestazione significava tutt’altro (praestatio -onis, ossia garanzia), performance è traducibile con dare forma (performare).

    Ma dare a forma a cosa?

    Nel loro libro, Maura Gancitano e Andrea Colamedici, nel capitolo dedicato specificatamente alla società della performance, affermano che ‘l’intera vita delle società, in cui dominano le più avanzate innovazioni tecnologiche, si annuncia un immenso accumulo di performance. Tutto può essere visto come una performance, ogni cosa può meritare di essere usata per accrescere la propria reputazione e la propria visibilità’. Quello che viene comunicato è dunque ‘ciò che è positivo, ciò che può accrescere la propria immagine, aumentare il ranking’. Performare dunque si, come sottolineato dagli autori, nella traduzione inglese di ‘eseguire’ ma anche di ‘dare forma’ alla propria identità.

    Un’identità che però sui social è filtrata in base a quello che scegliamo di mostrare (o di non mostrare) e su come farlo, con l’obiettivo di avere una buona valutazione. ‘La somma delle valutazioni ricevute dalle performance costituisce la reputazione […] L’esistenza si costituisce così nella sua reputazione, da cui rimangono fuori la sua vocazione e la narrazione della sua storia’. La società della performance oggi si manifesta, specificatamente, all’interno degli spazi social che occupiamo dove ‘si è piuttosto vincolati alla produzione di atti celebri, memorabili, che possano essere espiantati dal reale per venire impiantati nel virtuale’, parlando come se avessimo ‘un pubblico sterminato davanti, […] costretti alla celebrità’.

    La società della performance però ha origini antiche – proseguono Gancitano e Colamedici – ed ‘è il culmine di un processo che ha subito una decisa accelerazione durante i primi decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale – come Debord, Anders, Arendt, Bradbury e altri hanno messo in evidenza – ma che è iniziato molto tempo prima’. La matrice è quella di ‘una visione del mondo tutta diretta al progresso e all’accumulo che è radicata nei processi cognitivi degli occidentali’ ma che è figlia ‘a sua volta di un precedente crollo del modo di vedere il mondo che ha probabilmente avuto luogo al tempo di Platone’.

    Ed è proprio partendo dal ‘Mito della caverna’ del sopracitato filosofo e scrittore che secondo gli autori si può trovare la via d’uscita dalla società della performance.

    Il mito della caverna

    Il ‘Mito della caverna’, raccontato da Platone nel settimo libro de ‘La Repubblica’, è la storia di un gruppo di prigionieri incatenati, sin dalla nascita, all’interno di una caverna, la cui unica prospettiva è quella della visione frontale. Davanti a loro questi uomini vedono solo delle ombre di oggetti (animali, piante, altre persone), “proiettati” sulla parete della grotta grazie all’aiuto di un fuoco posto alle loro spalle.

    In questo contesto Platone immagina che uno di questi prigionieri venga liberato dalle catene, costretto però a rimanere in piedi con lo sguardo rivolto verso l’uscita. Inizialmente la luce dell’esterno gli risulterebbe abbagliante, gli oggetti reali (e non la loro proiezione) non gli sembrerebbero corrispondenti all’ombra ma, una volta uscito dalla caverna, si renderebbe conto di come stanno le cose, di qual è la verità dei fatti e che il mondo vero non è poi così male.

    Come spiegarlo però ai suoi compagni ancora incatenati?

    Nel mito raccontato da Platone il protagonista non viene creduto, è deriso e in ogni caso nessuno dei prigionieri vuole provare il dolore di farsi abbagliare da una luce a cui non è abituato.  Oggi la caverna sono i social, così come le esperienze che imitano il sacro (‘la fila davanti agli Apple Store o alle nuovi sedi di Starbucks’) e Gancitano e Colamedici propongono un passo successivo.

    Quello che ci fa comprendere dagli altri (ancora incatenati).

    Come uscire dalla società della performance 

    ‘Non è più tempo – scrivono gli autori – di essere comprensivi con chi disprezza il mondo della caverna, con quelli che dopo aver visto la luce rinunciando al mondo, ma tengono a far sapere a tutti il proprio disgusto. […] Gli intellettuali, gli studiosi, gli accademici […] hanno il dovere morale di prendersi carico di una porzione di mondo da tramandare, tanto nelle piazze fisiche che in quelle virtuali’.

    Gancitano e Colamedici invitano a riconoscere ‘il lato mostruoso della società della performance, diventando ‘la memoria letteraria dell’umanità’ e impegnandosi ‘a edificare una comunità che viva prima dentro e poi fuori la caverna’, per cui ‘solo un’evasione di massa, consapevole e potente, può scardinare il meccanismo della società della performance. Perché, se nessuno si salva da solo, la cosa migliore è salvarsi insieme’.

    Lezioni di meraviglia

    Non tutti sono ancora consapevoli dei danni psichici dell’attuale società della performance ma chi lo è deve ‘imparare a usare il web, i mezzi tecnologici, e stare sui social network allo scopo di divulgare l’oggetto del proprio amore per trasferirvi un pezzo del senso salvato dal vecchio mondo, usandolo per costruire comunità in grado di riflettere, condividere, scoprire e celebrare la vita’.

    ‘Il vero antidoto alla società della performance’, suggeriscono Gancitano e Colamedici, non è tanto il pensiero laterale (ovvero ‘la capacità di risolvere i problemi fornendo soluzioni alternative a quelle classiche, attraverso vie innovative e meno evidenti al primo sguardo’) ma la deriva, ‘tecnica del passaggio veloce attraverso gli ambienti, che afferma un comportamento ludico-costruttivo’. Una ‘pratica di filosofia di strada, che rende esperti della assi di passaggio cittadine, delle linee di senso che si intersecano lungo le vie. […] semplicemente vagare senza obiettivi, lasciandosi trasportare dai segni attraverso la città’.

    Una ricerca non del bello ma dell’insolito che ‘dura, di solito, una giornata intera’ e che trasforma il ‘performer, ossessionato dal ranking e dal fatturato’ in un ‘flaneur, il bighellone, lo sfaccendato ben descritto e incarnato da Walter Benjamin. Colui che ‘passeggia oziosamente come personalità individuale; questo è il suo modo di protestare contro la divisione del lavoro che fa della gente degli specialisti. E allo stesso modo protesta contro la loro laboriosità’’.  Perdersi per tornare nella caverna, senza ‘tirarsi fuori dal mondo’ e senza ‘sentirci superiori agli altri’.

    Con lo scopo di donare, con umiltà ai nostri simili, una nuova consapevolezza.

    Fonti

    Gancitano, M., & Colamedici, A. (2018), La società della performance. Roma: Tlon

    Platone (2007), La Repubblica. Bari: Laterza

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