“Osserva: l’infezione può cominciare con un semplice starnuto… poi ecco una stretta di mano… forse una collisione involontaria… o magari una semplice mano sulla spalla… e in un batter d’occhio ti ritrovi con un paziente nei guai”. Attraverso macchie verdi dall’aspetto sinistro, il Dottor Kelso mostra all’Inserviente con quanta facilità una possibile infezione si sposta dal fazzoletto in cui la prima persona ha starnutito fino al braccio dell’ultima ragazza entrata in ospedale.
Dottor Kelso e l’Inserviente sono due degli iconici personaggi della serie televisiva statunitense Scrubs – Medici ai primi ferri, famosa per i suoi 20 minuti a puntata di ironia, divertimento e riflessioni profonde e crude sulla natura umana. Questa puntata nello specifico (numero 12 della stagione 5), comparsa innumerevoli volte nelle home dei social network durante la quarantena, funge da perfetto corredo per le domande che ci poniamo in questo articolo: come funziona la meccanica del contagio di un virus? Conoscerla, potrebbe aiutarmi a non diventare un “paziente nei guai”? In ultimo, cosa rende il contagio da Coronavirus differente, più difficile da gestire, rispetto agli altri?
Non sarà un’indagine-lampo, alcuni argomenti richiedono un po’ di approfondimento in più del solito, promettiamo però di non renderla più lunga o faticosa del necessario.
In principio è l’organismo
Una catena logica unisce i tre termini contagio, virus e malattia infettiva: il contagio è l’atto attraverso il quale un virus si trasmette da un corpo all’altro, causando il diffondersi della relativa malattia infettiva; più semplicemente, la malattia infettiva è il cosa, il virus è il perché e il contagio è il come.
Partiamo dal virus, organismo di dimensioni (più che) microscopiche composto da un nucleo e da una membrana che lo riveste, il primo fatto di materiale genetico (DNA o RNA), la seconda di proteine. Cosa rende questo elemento il “perché” della catena logica? Il fatto che sia un parassita, incapace di riprodursi se non all’interno di altre cellule, ovvero di altri organismi, siano questi acqua, roccia, animali o gli stessi esseri umani. Esistono una miriade di virus, catalogabili scientificamente per famiglie, generi e specie, che cambiano e si adattano per essere ospitati negli organismi più disparati e sopravvivere, per un certo periodo di tempo, sui materiali organici e inorganici esistenti in natura.
Restringiamo il campo ai soli virus che, grazie a particolari combinazioni di genetica e resistenza, possono effettivamente trasmettersi fino a noi e, di conseguenza, tra di noi.
Quando il virus si fa malattia
Il virus che interferisce geneticamente con le nostre cellule permette il palesarsi di una malattia; è questa che, tra le altre cose, ne determina il nome con cui lo chiamiamo pubblicamente dal momento in cui ne veniamo a conoscenza.
Notoriamente, negli organismi animali come i nostri, il sistema immunitario impara nel tempo a riconoscere gli agenti nocivi che attaccano il nostro corpo, sviluppando gli anticorpi utili di volta in volta a isolare il virus fino a renderlo innocuo – processo di immunizzazione attiva; nel caso della vaccinazione, si parla più precisamente di immunizzazione attiva artificiale (ctr. Wikipedia).
Cosa accade, però, quando il grado di virulenza (capacità di un agente patogeno di oltrepassare i sistemi di difesa degli organismi, ctr. Wikipedia) è alto, oppure il nostro sistema immunitario si scontra con un tipo di virus per la prima volta e non può contrastarlo subito, oppure, ancora, è troppo debole per reagire all’attacco e il virus ha comunque la meglio? Ci ammaliamo, più o meno gravemente. Due esempi comunissimi su tutti: varicella e virus intestinale.
Sconfitti o conviventi? Varicella e virus intestinale
Il virus varicella-zoster (famiglia Herpesviridae), lo spauracchio dei preadolescenti: eruzioni cutanee purulente e pruriginose sono lo stadio visibile dell’infezione che costringe il malcapitato a rimanere a casa per una o due settimane, con il rischio di tenersi per sempre cicatrici su improbabili parti del corpo, qualora il bisogno di grattarsi fosse irresistibile e una bolla si rompesse prematuramente.
Trasmettendosi via droplet (goccioline respiratorie) oppure per contatto diretto con la lesione (tradotto, la bolla di varicella di un’altra persona), le pratiche di prevenzione logiche sono non toccare strane lesioni cutanee altrui (sperando sia un’indicazione scontata…) ed evitare di entrare in contatto con la saliva potenzialmente infetta di qualcun altro; tutto possibile, anche se è difficile non condividere mai un bicchiere o una bottiglia durante una festicciola casalinga.
Fortunatamente, il vaccino contro la varicella è oggigiorno facilmente reperibile e gratuito in alcune regioni italiane (es. Marche), un dato confortante che, in situazioni non gravi, garantisce al più un argomento di conversazione sempreverde: “Ma tu, da piccolo, hai avuto la varicella o il morbillo? Io non ricordo mai se le ho avute o se sono vaccinato…”.
La gastroenterite virale (da non confondere con le gastroenteriti causate da batteri, tossine o altre cause patogene), dovuta più comunemente al Rotavirus (fam. Reoviridae) nei bambini ancora impreparati a livello immunitario, e dal virus di Norwalk (fam. Noroviridae), in soggetti adulti con scarsa igiene personale o semplicemente sfortunati, è trasmessa per via oro-fecale oppure via acqua e/o alimenti infetti.
In quest’ultimo caso, diviene una compagna fedele e inopportuna, che può palesarsi inaspettatamente durante un pasto determinante per la propria vita professionale o sentimentale, costringendo il novello ospite di virus ad una corsa disperata verso il bagno più vicino, lasciando l’indelebile e vergognoso ricordo di aver avuto vomito o diarrea lontano da casa, magari circondato da voci sconosciute che hanno quasi sicuramente sentito tutta la difficoltà al di là della porta. Se non colpisce una persona anziana, una già debilitata da altre malattie o costretta a vivere in contesti igienicamente scarsi, la prospettiva peggiore per il soggetto infetto è quella di passare una o due giornate intere a fare avanti e indietro tra il letto e il water, maledicendo le decisioni prese fino a quel momento della vita.
Quasi impossibile da evitare per sempre, data la complicata catena alimentare attraverso cui passano gli alimenti prima di arrivare a noi, l’unica è affidarsi alle probabilità a nostro favore, alla pulizia dei luoghi dove mangiamo e alle nostre buone abitudini igieniche.
Il nostro Coronavirus è differente… o forse no
In una casistica di malattie infettive quasi sconfinata, l’apparato umano di gran lunga più colpito è quello respiratorio. Ogni anno ci prendiamo influenze, polmoniti e bronchiti di ogni genere, uscendone più o meno bene a seconda della condizione fisica antecedente l’infezione, l’età, lo stile di vita condotto fino a quel punto.
Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 è arrivato fino a noi l’ennesimo virus cardiorespiratorio, particolarmente forte e subdolo: il SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome – CoronaVirus – 2, coronavirus 2 da sindrome respiratoria acuta grave) e la relativa malattia nota come COVID-19 (COronaVIrus Disease-2019), ormai amichevolmente appellata Coronavirus per la forma “coronata” che assume la membrana lipidica vista al microscopio. Settimo coronavirus ad essere riconosciuto nocivo per l’essere umano – geneticamente parente alla SARS dei primi anni 2000, entrambi della famiglia dei Coronaviridae – ha portato al lockdown di un Paese dopo l’altro. Alla fine di gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia.
Cause e concause del COVID-19
Il nuovo Coronavirus, pur geneticamente simile ad altri, ha rappresentato fin da subito una sfida contro il tempo dal punto di vista del contagio da uomo a uomo.
Con un periodo di incubazione stimato tra i 2 giorni e le 2 settimane e la capacità di infettare, via goccioline respiratorie (i droplet prima nominati), fino a 4 nuove persone ogni volta, qualsiasi titubanza avuta dai Governi nel limitare contatti sociali e spostamenti, seppur comprensibile, ha inevitabilmente giocato a nostro sfavore.
Studi riguardanti proprio fattori migratori e socio-culturali che hanno contribuito alla nascita dell’emergenza confermano che la facilità di spostamento da una parte all’altra del mondo e l’abitudine, differenziata da Paese a Paese, di formare assembramenti per motivi religiosi, politici, culturali o semplicemente pratici hanno inequivocabilmente contribuito alla rapidità e alle proporzioni del contagio. Questi fattori si sommano all’alto tasso di trasmissione intrinseco del virus: sono attive svariate ricerche che calcolano il tempo di resistenza in aria o sulle superfici, che cercano di circoscrivere a quali particelle molecolari sia in grado di agganciarsi o meno.
Laddove le categorie più a rischio sono state presto individuate – over 60, soggetti già debilitati da altre malattie cardiocircolatorie e immunodepressi – il COVID-19 non ha risparmiato giovani o adulti in salute, numeri di malati tali da far entrare in stato di emergenza lo stesso sistema sanitario in termini di posti letto, forza lavoro e terapie curative valutate di volta in volta, essendo un virus mai affrontato in precedenza.
Diventerò mai un “paziente nei guai”?
Il quadro sembra drammatico, eppure esiste un modo per uscire dal pantano. Abbiamo capito che alla definizione di “meccanica del contagio” contribuiscono differenti fattori, dalla biologia del virus alle abitudini culturali e sociali di ognuno di noi.
Abbiamo capito, di conseguenza, che non possiamo assolutamente avere il controllo di questo intero meccanismo, dobbiamo fidarci e affidarci alla ricerca medico-scientifica. Fase 1, dopo fase 2, dopo fase 3 e così via, anche da questa pandemia si uscirà: i tempi stimati per un vaccino, secondo un recente report di A.R.S. Toscana, indicano già novembre 2020 per il completamento di una sperimentazione, e moltissime altre sono attive in tutto il mondo.
Per rispondere, quindi, alla domanda più importante che ci eravamo posti all’inizio: è impossibile avere la certezza di non diventare mai un “paziente nei guai”. Forse, però, la vera domanda da porsi è un’altra. In più a quanto appena detto, abbiamo anche capito che esiste sempre un margine d’azione da adottare, sia collettivamente sia singolarmente, in caso di alto rischio di contagio: conoscere il problema e attuare le pratiche di prevenzione, il prima possibile e per il tempo che risulta necessario.
Distanziamento sociale, indossare le mascherine, lavarsi o igienizzarsi spesso le mani sono state e rimangono tuttora le uniche difese davvero utili a nostra disposizione per continuare a limitare la trasmissione da persona a persona. Il vero punto della questione su cui ognuno di noi può avere il controllo è il modo in cui ne usciremo psicologicamente e personalmente, e su questo crediamo di poter dare una piccola risposta certa, ripetendoci forse un po’ ma solo per il bene dell’informazione: conoscendo il problema, non abbandonandosi a paranoie ipocondriache e, soprattutto, non lasciandosi andare al pressappochismo al primo segnale di allentamento.
Per concludere, il nostro Cavolo
Proprio in questi giorni su Nature Medicine è stato pubblicato un articolo che conferma una speranza importante: 285 pazienti di Coronavirus cinesi hanno sviluppato immunoglobine IgG anti-COVID, in altre parole gli anticorpi che li renderanno immuni a futuri contagi.
Questa notizia ci riporta a Scrubs. Negli ultimi minuti della puntata vediamo il goffo specializzando soprannominato Cavolo che percorre per l’ultima volta i corridoi dell’ospedale, ha deciso di lasciare la scuola di Medicina. Si ferma a raccogliere un guanto abbandonato a terra e lo butta nell’apposito cestino, poi decide di fermarsi a salutare la signora Wilk, l’anziana paziente, saggia e pimpante, arrivata finalmente al suo ultimo giorno di ricovero. “È sempre stata gentile con me, grazie” le dice, lei si commuove e si porta alla bocca le mani con cui ha stretto calorosamente quella che Cavolo aveva poco prima usato per raccogliere il guanto. Sarebbe un finale felice perfetto, non fosse per la macchia verde di infezione che vediamo propagarsi sulla signora Wilk, la triste consapevolezza delle conseguenze che avrà su di lei, e per Fix You dei Coldplay che ci accompagna ai titoli di coda.
Oltre a ribadire la perfezione stilistica e narrativa della serie (si ride tanto quanto si piange guardandola, forse non l’avevamo detto), questa scena dovrebbe ricordarci due cose molto importanti sul contagio da Coronavirus. Primo, la notizia dello sviluppo di anticorpi è bella ma non abbastanza, l’immunità di gregge necessaria alla fine del pericolo è ancora lontana dall’essere dichiarata. Secondo, il motivo per cui questa puntata di Scrubs ci colpisce tanto è il fatto che Cavolo potrebbe essere ognuno di noi, persone gentili e un po’ goffe, ogni volta che andiamo a trovare un affetto stabile e ci dimentichiamo di essere ancora in emergenza.
Proviamo a stare un po’ più attenti di Cavolo, se teniamo duro ce la facciamo davvero, la fine della pandemia è vicina.
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