Se all’inizio degli anni ‘90 eravate appassionati di basket e abbastanza grandi per ricordarvi delle rare partite dell’NBA che venivano trasmesse in Italia, ricorderete sicuramente la figura di ‘Magic’ Johnson, indimenticabile simbolo del basket. Per tutti, in ogni caso, è stata una delle indelebili figure del dramma dell’HIV che, a partire dalla metà degli ‘80, entrò prepotentemente nella società occidentale.
Ecco la storia dell’ascesa, della caduta e della risalita di uno dei migliori giocatori che abbiano mai calcato un parquet: Earvin Johnson Jr., detto ‘Magic’.
Chi è ‘Magic’ Johnson
Lansing, Michigan, 90 miglia a Ovest da Detroit. Siamo alla fine degli anni ‘50 del secolo scorso e Earvin Johnson Sr., originario di Brookhaven nel Mississippi, ci si è appena trasferito. Il signor Johnson fa il meccanico e a Lansing c’è la Oldsmobile, una delle più antiche case automobilistiche del Paese, dove lui lavora. Ma il signor Johnson ha anche una passione per il basket che, negli USA, era diventato uno sport professionistico da pochi anni con la nascita della NBA (National Basketball Association).
Per Earvin Sr. è ormai tardi per pensare a una carriera in quella Lega sportiva appena nata ma per uno dei sette figli, particolarmente interessato a quella palla a spicchi, forse no. Si chiama come lui e assorbe come una spugna gli insegnamenti del padre. In breve, parole come pick and roll e gancio in corsa diventano pane quotidiano e quando le modeste condizioni economiche della famiglia lo consentono è alla Cobo Arena di Detroit a vedere i suoi miti del parquet. Ce n’è uno che lo colpisce in particolare. È Kareem Abdul-Jabbar, centro dei Milwaukee Bucks e quello che la storia non ha ancora scritto è che, prima di quanto il giovane Earvin Johnson possa immaginare, saranno compagni di squadra nei Los Angeles Lakers.
L’ascesa del ragazzo è prodigiosa, tanto che ad appena quindici anni un giornalista gli da il soprannome di ‘Magic’, che gli resterà incollato addosso come un nuovo nome. Le tappe della carriera vengono bruciate senza particolari intoppi. Nel 1979, a vent’anni, ‘Magic’ Johnson è finalmente pronto per la grande ribalta e al Draft NBA di quell’anno è la prima scelta dei Los Angeles Lakers. Le aspettative non vengono deluse. Da quella prima stagione al 1991, anno del suo primo ritiro, mette a segno 17.239 punti in 874 partite (una media di 20 punti a partita in pratica), vince 5 campionati NBA e ribalta l’idea del ruolo di playmaker, normalmente riservato a giocatori di bassa statura (lui che è 2 metri e 6 centimetri).
Una carriera straordinaria di un giocatore che il suo più grande rivale sul campo, Larry Bird dei Boston Celtics, definì “Il migliore che io abbia mai visto”, dopo una finale persa contro i suoi Los Angeles Lakers. E che il 7 novembre 1991 fece un annuncio pubblico che gelò il mondo dello sport e non solo: era positivo all’HIV e per questo si sarebbe ritirato dall’NBA.
Il dramma dell’HIV e dell’AIDS
Facciamo un passo indietro nel tempo al 5 giugno 1984. L’attore-divo Rock Hudson viene a sapere di aver contratto il virus dell’HIV. Si tratta della prima celebrità internazionale ad ammetterlo pubblicamente e rappresenta un caso mediatico ancora più forte se si pensa che Hudson era lo stereotipo dell’uomo americano perfetto.
L’’idea che l’HIV potesse colpire persone eterosessuali (Rock Hudson era in realtà, segretamente, gay), bianche e virili gettò il mondo occidentale nel panico, generando paura e discriminazioni nei confronti dei malati, a partire dallo stesso attore. Nel giro di pochi anni si scatenò una vera e propria marginalizzazione di tutti coloro che erano stati infettati dal virus e tra i casi più noti si ricordano quelli di Ryan White, espulso dalla scuola nonostante i medici avessero dato rassicurazione sul pericolo di contaminazione, dell’artista Keith Haring e del cantante dei Queen, Freddy Mercury, che annunciò di essere positivo solo il giorno prima della sua morte.
In Italia la vicenda più conosciuta è, invece, quella che riguarda il giornalista Giovanni Forti che rilasciò un’intervista su Rai1 da Enzo Biagi e successivamente pubblicò un articolo sul tema su ‘L’Espresso’ del 16 febbraio 1992, prima della sua morte avvenuta il 3 aprile dello stesso anno.
La piena consapevolezza sull’argomento, però, era ancora lontana. Anche quando il medico dei Lakers, Michael Mellman, aprì la busta contenente i risultati della diagnosi del loro giocatore simbolo: Earvin “Magic” Johnson.
‘Magic’ Johnson e l’HIV
24 ottobre 1991. Siamo a Salt Lake City e “Magic” è pronto a scendere in campo contro gli Utah Jazz in una partita amichevole, quando riceve una chiamata inattesa. È Michael Mellman che gli comunica che deve rientrare a Los Angeles il prima possibile; lo aspetta nel suo studio e vuole comunicargli personalmente l’esito degli esami.
Il 25 ottobre, Earvin è in città e riceve la notizia: è positivo all’HIV. Il playmaker è incredulo e fa ripetere gli esami ben tre volte, sempre con il solito esito. I Lakers decidono di mantenere il profilo basso, “Magic” non viene convocato per le partite successive e vengono fornite spiegazioni vaghe sulla sua esclusione. Il 5 novembre, Mike Dunleavy, l’allenatore, fa sapere alla stampa che il suo rientro in campo è prossimo ma la verità non può tardare ad arrivare.
Due giorni dopo “Magic” annuncia pubblicamente in conferenza stampa la notizia, rassicura che la moglie e il figlio in arrivo non risultano positivi e il medico specifica la differenza tra aver contratto l’HIV ed essere malati di AIDS (una sindrome causata dal mancato trattamento dell’HIV). Il consiglio è però quello di interrompere l’attività agonistica per non compromettere le condizioni del sistema immunitario e così, a 32 anni, “Magic” Johnson ufficializza il suo ritiro.
Da allora però molte cose sono cambiate: se prima i personaggi famosi con problemi di salute tendevano a negare e nascondere, da questa vicenda in poi molti di loro hanno deciso di parlarne apertamente, mettendo il loro volto a disposizione per portare l’attenzione su malattie anche rare di cui normalmente si parla poco.
‘Magic’ Johnson dopo l’annuncio
La forza di un uomo, ancora prima che di un atleta, sta nel riuscire a rialzarsi dopo una caduta. “Magic” non si perde d’animo e subito dopo l’annuncio della sua positività fonda la Magic Johnson Foundation che ha lo scopo di raccogliere finanziamenti per programmi per la lotta alla diffusione dell’AIDS.
Negli anni, i risultati della fondazione sono ammirevoli e culminano nel programma ‘I stand with Magic’ che dal dicembre 2006 ha fornito 38.000 test gratuiti per il controllo della sieropositività nelle principali città degli Stati Uniti d’America. Ma non finisce qua. Nell’anno del ritiro riesce comunque a prendere parte all’All-Star Game (la partita fra i migliori giocatori NBA della stagione) e a partecipare, da protagonista, alle Olimpiadi del 1992, dove il “Dream Team” degli USA conquista la medaglia d’oro.
Storici, poi, i suoi ritorni sul parquet. Nel 1996 sempre con la maglia dei Los Angeles Lakers un “Magic” che non sembra aver perso il tuo tocco, nonostante il cambio di ruolo (da playmaker ad ala forte) per via dell’aumento del peso, chiude la stagione con una media di circa 15 punti e 6 a rimbalzi a partita; a fine secolo arriva in Europa, tra Svezia e Danimarca, per calcare i campi rispettivamente dei Magic M7 Boras e dei Magic Great Danes in 8 memorabili apparizioni totali.
La vittoria contro la malattia e il ritorno ai Lakers
La notizia più bella arriva nel 1997, quando la moglie annuncia al mondo che nel sangue dell’ex-campione NBA non c’è più traccia del virus. Motivo per riprendersi in mano una vita che comunque non aveva mai smesso di andare avanti con idee e progetti.
Dopo il ritiro, ‘Magic’ Johnson ha continuato la sua carriera imprenditoriale (iniziata nel 1987 con la fondazione della Magic Johnson Enterprises), portato avanti in maniera attiva la sua battaglia all’AIDS ed è sceso persino in politica, sostenendo nel 2012 la campagna elettorale per la rielezione a Presidente degli Stati Uniti d’America di Barack Obama e successivamente quella a sostegno di Hillary Clinton. Ancora più di recente si è messo a fianco dell’NBA per combattere la pandemia di coronavirus.
Infine i Lakers. La storia d’amore con la sua ex-squadra non è finita e dopo una sfortunata esperienza come allenatore nel 1994 (appena 16 partite con 5 vittorie e 11 sconfitte) ne è stato Presidente dal 2017 al 2019. Oggi, nonostante un addio burrascoso dalla carica, ricopre il ruolo di consigliere della società per quanto riguarda la scelta di nuovi giocatori.
Certi amori, d’altronde si sa, non finiscono.
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