Non so voi, ma io personalmente mi sono ritrovato moltissime volte, nel corso della mia vita (veleggio nervosamente verso i quarant’anni), nella situazione di non sentirmi addosso l’età che avevo. Da adolescente, ad esempio, mal sopportavo quel senso di ribellione contro i propri genitori che attraversava alcuni miei coetanei, così come quel gusto di commettere piccole infrazioni contro la legge. Da adulto (ahimé mi devo inserire in questa categoria) faccio fatica a sopportare quel pesante fardello chiamato senso di responsabilità e una certa seriosità che si accompagnano con l’età dei grandi.
Sorprendentemente (o forse no), come nel caso della tematica del “parlare da solo”, topic di cui pensavo erroneamente di avere l’esclusiva quantomeno nazionale, anche in quello del “non sentire la propria età” il web si dimostra essere una foresta di confessioni in cerca di spiegazioni. C’è persino una discreta letteratura scientifica in materia, perché, non da oggi, diversi studiosi si sono messi ad analizzare in maniera scrupolosa la questione legata alla errata percezione della propria età e alle sue conseguenze sulla salute.
Sei vecchio quanto ti ci senti
Nel 1989, J.M. Montepare e M.E. Lachman, pubblicarono lo studio dal titolo ‘“You’re only as old as you feel”: self-perceptions of age, fears of aging, and life satisfaction from adolescence to old age”. In questa ricerca i due esaminarono proprio la percezione soggettiva dell’età, partendo dall’adolescenza per arrivare alla vecchiaia e contemporaneamente la relazione che intercorre tra la suddetta percezione, le paure legate al proprio invecchiamento e il grado di soddisfazione della vita. Per condurre la ricerca, i due studiosi sottoposero un questionario a 188 persone, tra uomini e donne, di età compresa tra i 14 e gli 83 anni. Le domande chiedevano di esprimere un giudizio su quanti anni si sentivano e desideravano avere, se agivano in base alla loro età o ad un’altra, se avevano personalmente paura di invecchiare e se erano soddisfatti della loro vita attuale.
I risultati finali rivelarono che tra gli adolescenti emergevano personalità più “anziane”, mentre dei giovani adulti ne usciva un ritratto coerente con la loro età; gli altri soggetti più anziani, fino agli ottantenni presi in esame, mostravano infine identità più “giovani”, soprattutto le donne.
Perché non ci sentiamo (quasi mai) la nostra età?
‘Nobody likes you when you’re twenty-three. And are still more amused by TV shows. What the hell is ADD? My friends say I should act my age. What’s my age again What’s my age again?’
(Blink 182. “What’s my age again?”. Da Blink 182. Enema of the State. MCA, 1999. LP o CD)
Secondo lo studio di Montepare e Lachman queste dissociazioni rilevate fra l’età soggettiva/percepita/desiderata e quella effettiva erano legate a due aspetti:
- la paura dell’invecchiamento
- l’insoddisfazione della propria vita attuale
Con l’età, come sottolineato dallo studio più recente (del 2011) in materia, ‘Chronological and subjective age differences in flourishing mental health and major depressive episode’ gli adulti tendono a sentirsi più giovani e vogliono avere meno anni di quanti ne hanno in realtà. Una strategia di adattamento che, sempre in base al sopracitato studio, è correlata a un minor rischio di episodi depressivi maggiori e ad una maggiore fioritura della salute mentale.
Ma se invece ci sentiamo più vecchi della nostra età?
Essere vecchi “dentro”
Da quanto emerge dallo studio, del 2018, ‘Feeling How Old I Am: Subjective Age Is Associated With Estimated Brain Age’ la risposta è semplice. Sentirsi soggettivamente più vecchi della propria età può riflettere strutture cerebrali che invecchiano relativamente più velocemente, con conseguenze dirette sulla salute. Una significativa atrofia dei tessuti della massa grigia e un’età mentale più avanzata, infatti, possono portare (come riportato dallo studio di Samuel N. Lockhart e Charles De Carli, ‘Structural imaging measures of brain aging’) a rischi cerebrovascolari, così come a una ridotta efficienza nello svolgimento di impegnativi compiti cognitivi.
Sentirsi tra gli 8 e i 13 anni in più rispetto alla propria età effettiva, sempre secondo quanto riportato dagli studi citati, espone a un maggior rischio di morte (dal 18 al 25% in più rispetto a chi si sente più giovane o in linea con la sua età) e di malattie.
Insomma, sentirsi vecchi “dentro” non è esattamente il massimo; uscire da quello che rischia di essere un circolo vizioso, a base di depressione e debolezza fisica, prendendo coscienza delle conseguenze negative è la cosa migliore.
Ho 30 anni e mi sento vecchio/a
Sentirsi “vecchi” è, comunque, una fase fondamentale dello sviluppo personale ed è quel segnale che ci arriva per farci accorgere che siamo arrivati alla fine di un percorso che non ci da più soddisfazione, una scossa per uscire dalla classica comfort zone che non ci permette di evolvere o rifiorire.
Diventa importante il dialogo interno, in cui è fondamentale abolire espressioni come ‘ormai’ con quelle che sottintendono un’assunzione di responsabilità personale per uscire dalla situazione in cui ci si trova. Aprirsi all’ignoto, alle nuove esperienze, a un cambio di prospettiva (cose che non fanno proprio rima con la vecchiaia) sono poi ottimi modi per “tornare” a essere giovani.
Che non significa necessariamente immaturi.
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