Si chiama Davide Faranda, è un fisico del CNRS (Centro Nazionale della Ricerca Francese) e dopo la perdita di suo nonno, scomparso a causa del Covid-19, ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio della ricerca contro il virus.
L’ho contattato per chiedergli quando ha sentito parlare per la prima volta di questo coronavirus e come, insieme ai suoi colleghi, si è messo al lavoro per studiarlo meglio.
Ecco quello che mi ha raccontato.
Partiamo dal racconto del tuo lavoro nel mondo prima del Covid-19 al CNRS (Centro nazionale della ricerca francese). Su quali progetti stavi lavorando? Quando hai sentito parlare per la prima volta di questo coronavirus e qual è stata la tua reazione?
Io sono un fisico dei sistemi complessi. Prima del Covid (e anche adesso, perché non ho abbandonato le altre linee di ricerca) lavoravo allo sviluppo di metodi di machine learning per il clima e all’attribuzione degli eventi estremi meteorologici al cambiamento climatico. Per esempio, ci chiediamo se è possibile dire che un’ondata di caldo oppure un’inondazione ha un legame diretto col cambiamento climatico. Il Covid l’ho scoperto, come molti, dalle notizie internazionali. All’inizio non erano chiari i meccanismi di diffusione del virus, né l’estensione del contagio in Cina. La cosa che faceva più paura era la reazione del governo cinese con la decisione di mettere in lockdown Wuhan. Questo era un primo segnale di forte preoccupazione.
La perdita di tuo nonno materno, lo scorso 20 marzo, per Covid-19 è la stata la molla che ti ha spinto a dedicare una parte del tuo tempo e dei tuoi studi a questo virus. Qual è l’obiettivo della ricerca?
La perdita di mio nonno e l’inquietudine per quello che stava succedendo in Italia e nel mondo è stata una delle molle per studiare il coronavirus. L’altra veniva dalle discussioni con i colleghi in cui ci dicevamo che potevamo contribuire ad una comprensione di certi meccanismi di trasmissione del virus con le nostre conoscenze di metodi matematici per sistemi complessi normalmente applicate al clima. L’idea è che, come per il clima, per la previsione dell’epidemia di Covid si ha a che fare con dei dati incerti. L’incertezza deriva dal fatto che non si può conoscere lo stato infeziologico di tutta la popolazione a un dato istante, così come per il clima, non possiamo conoscere temperatura, pressione e venti in ogni punto dell’atmosfera. Questa incertezza si somma alla componente umana: per il clima non conosciamo le azioni che determineranno per esempio le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Per il Covid non sappiamo se le persone rispetteranno o no le misure di confinamento, né se i governi cambieranno strategia e riapriranno certe attività. Per muoversi in questi scenari di incertezza sono necessarie delle competenze di fisica, statistica e di matematica che, con i miei colleghi, abbiamo deciso di mettere al servizio dell’analisi dei dati del Covid.
Tu sei un fisico. Quali competenze ti sono state utili in questo lavoro e da dove sei partito?
Oltre all’incertezza dei dati che viene trattata con metodi statistici, i modelli di epidemiologia sono dei modelli fisici che hanno caratteristiche ben precise. Nei modelli fisici di solito si conserva la massa o l’energia, in quelli epidemiologici la quantità conservata è la popolazione totale: ci si può muovere tra compartimenti che rappresentano le popolazioni infette, immuni, asintomatiche o suscettibili di avere il virus. Questi punti di partenza rendono l’analisi dei modelli di epidemiologia molto naturali per i fisici statistici. Ho trovato quindi naturale applicare le mie competenze di fisica statistica alla causa. Questo non vuol dire che un giorno mi sono svegliato “epidemiologo”. Gli epidemiologi fanno benissimo il lavoro e sono loro a costruire i modelli. Io e i miei colleghi abbiamo semplicemente capito quali incertezze bisogna tenere presenti quando questi modelli vengono applicati a dei dati così incerti e parziali come quelli del Covid.
Studiando i dati di questa epidemia, cosa hai capito di questo virus e come prevedi, se si può fare una previsione, che si svilupperà nei prossimi mesi?
La caratteristica più lampante del Covid-19 è la sua estrema variabilità sintomatologica, il comportamento tra classi d’età differente e la sua distribuzione geografica molto singolare. Abbiamo cercato di simulare questa variabilità con dei modelli in cui i parametri (come R0, il tasso di riproduzione di base) non sono costanti ma variabili nel tempo. Questo ci permette di costruire scenari di propagazione del virus con i modelli dei colleghi epidemiologi, ma di includere l’incertezza nella stima della propagazione in modo naturale. Anche per il futuro stiamo facendo, con Tommaso Alberti dell’INAF, dei modelli di propagazione. I risultati mostrano che, allo stato attuale, tutti gli scenari sono aperti: una seconda ondata è altamente probabile se non applichiamo le misure di distanziamento suggerite dai virologi. Tuttavia la seconda ondata può essere evitata senza ricorrere ad un nuovo lockdown se queste misure sono applicate correttamente. Tutto si gioca su dei valori di R0 che sono vicini ad 1. Il controllo è molto delicato e dipende dagli sforzi di tutti nel ridurre (senza per forza annullare) i contatti, soprattutto in luoghi chiusi e senza aerazione. Studi molto recenti hanno infatti dimostrato che il virus resiste molto poco all’aria aperta nella bella stagione.
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