Marco Termenana: ‘Le parole sono “semini” che possono salvare la vita dei vostri figli’

In occasione della giornata europea contro omofobia, bifobia e transfobia abbiamo intervistato l’autore del romanzo “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli”.

Libro sull'identità di genere e hikkimori

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    Il 17 maggio è la giornata riconosciuta dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia.

    In occasione di questo appuntamento abbiamo intervistato lo scrittore Marco Termenana (pseudonimo con il quale ha deciso di firmarsi), autore del libro “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli” in cui ripercorre la tragica scomparsa, avvenuta nel 2014 a Milano, del figlio Giuseppe che, a soli 21 anni, decise di togliersi la vita.

    Marco ha deciso di condividere con noi la sua personale esperienza in seguito alla tragedia che l’ha colpito.

    Giuseppe era un ragazzo dal carattere molto introverso, spinto all’isolamento dell’hikikomori, un fenomeno che riguarda l’isolamento adolescenziale di cui abbiamo parlato anche nel nostro magazine, ma che fino a poco tempo fa era affatto sconosciuto alla maggior parte delle persone.

    Come tanti giovani della sua età viveva molte incertezze che riguardavano soprattutto la sua identità al punto da sentire la necessità in certi momenti di darsi un altro nome, Noemi. Ma alla fine purtroppo bipolarità e auto-isolamento lo hanno indotto a non vedere per lui un futuro e a farla finita.

    Libro sull'identità di genere contro omofobia

    • Il romanzo è ispirato alla tragica scomparsa di suo figlio, avvenuta tra il 24 e il 25 marzo del 2014. L’obiettivo è quello di onorare la sua memoria ma anche quello di aiutare gli altri genitori ad affrontare il disagio giovanile dei figli. In che modo pensa che il suo libro riesca in questo obiettivo?

    Per quanto riguarda il modo con cui il libro può aiutare gli altri, in base a quanto mi ha scritto uno dei miei lettori, posso dire che la storia di Giuseppe, per come è raccontata, aiuta chi legge a farsi domande, un lavoro di introspezione di cui c’è un gran bisogno.

    Io però, ci tengo a precisare, che non ho scritto per aiutare gli altri, nel senso che il dolore, almeno per me, ma credo anche per le altre persone che hanno affrontato quello che è mi è capitato, è talmente forte che se non si creano gli adeguati sistemi compensativi il cervello scoppia. In altre parole, dalla mia esperienza l’essere umano non è programmato per resistere alla morte di un figlio e scrivere ha rappresentato per me un tentativo di  compensazione. Peraltro, sin da ragazzino, mi è sempre piaciuto scrivere, tanto che sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti da quando avevo 22 anni, ma in questo caso la scrittura rappresenta per me una morfina. L’esempio che porto sempre, durante le presentazioni, è che quando 10 anni fa sono stato operato al cuore mi hanno dato la morfina per consentirmi di sopportare il dolore. La morfina non è curativa, copre il dolore, e così è la stessa cosa per me scrivere. Scrivere è la mia morfina e scrivendo ho ritrovato Giuseppe.

    • Suo figlio si sentiva intrappolato nel proprio corpo al punto che il protagonista, a volte, diventa un’altra persona, Noemi. Il 17 maggio è la giornata riconosciuta dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. A che punto del dibattito siamo, dal suo punto di vista, nel nostro Paese?

    Sicuramente da quando è successo di mio figlio, otto anni fa, almeno a Milano sono stati fatti dei passi da gigante, qualche giorno fa anche il Papa ha affrontato l’argomento.

    Quando Giuseppe si sentiva più donna che uomo i tempi non erano quelli di adesso e, come dice uno dei miei lettori, mio figlio ha commesso un solo errore, quello di nascere con dieci anni di anticipo. Se fosse nato adesso, forse, non avrebbe avuto di questi problemi. Io sono parzialmente d’accordo perché girando con il mio libro precedente “Giuseppe”, firmato con lo pseudonimo di El Grinta, prima che il Covid ci fermasse, ho avuto modo di vedere che, ad esempio, dell’hikikomori nelle scuole non se ne parla.

    Quello dell’hikikomori non è un problema delle scuole ma delle famiglie, perché comunque il ragazzo o la ragazza che soffre di hikikomori non va a scuola e per la scuola non è un problema. Per quanto riguarda l’identità di genere indefinita, invece, per la mia esperienza fino allo stop imposto dal Covid, se tu eri in una scuola e c’era un solo problema di un ragazzo o di una ragazza sull’identità di genere, tutto l’istituto si concentrava su quel caso, a cominciare dai docenti che non sanno come gestirlo.

    Questo è un problema grosso, perché fino a quando c’è la famiglia c’è ancora margine ma quando quest’ultima non c’è la scuola è l’ultimo baluardo. Poi, quando questi ragazzi lasciano la scuola, sai qual è la strada soprattutto nel caso degli uomini che si sentono donna? La prostituzione. Questa è la situazione, almeno dalla mia esperienza. Per cui è vero che da una parte abbiamo fatto grandi progressi ma mi sembra che questi grandi progressi non siano stati fatti nelle scuole italiane.

    • Come detto suo figlio si era spinto all’hikikomori. Una scelta che apre il vaso della comunicazione, tra genitori e figli. Pensa, in base anche alla sua esperienza, che oggi sia minore che in passato? E se sì, perché?

    Una professoressa mi ha detto: ‘Voi avevate un caso di hikikomori in casa e non ve ne siete accorti’ ma io ho conosciuto l’hikikomori solo dopo la morte di Giuseppe, un male che si consuma nella mente. Abbiamo tentato in tutti i modi di sostenere Giuseppe ma rifiutava l’aiuto anche dello psicologo, dove è andato solamente per sei mesi.

    Riguardo alla comunicazione tra genitori e figli non sono in grado di fare una comparazione con il passato, non posso dire se è aumentata o diminuita. Molti miei lettori mi dicono che il Covid ha accentuato l’isolamento e, alcuni di loro, mi hanno suggerito di creare una fondazione per fare donazioni agli istituti che si occupano di ricerche sulle malattie dei ragazzi nell’età evolutiva. È un problema importante e siamo all’anno zero.

    • Il titolo, “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli”, mette al centro un rimpianto ma, al tempo stesso, il romanzo è una seconda occasione. Le chiedo, quale messaggio vorrebbe trasmettere a tutti coloro, genitori e figli, che oggi attraversano una situazione simile a quella che all’epoca passava con suo figlio?

    Quando ho occasione di girare per le scuole o alle presentazioni, una cosa che dico sempre, sempre, sempre ai ragazzi è, se hanno un qualsiasi problema, di non tenerselo dentro ma di parlare, possibilmente, con i propri genitori o con un professore, un sacerdote, uno psicologo, un fratello o una sorella maggiore o un amico.

    Ai genitori, invece, se hanno dei figli piccoli dico di stare più tempo possibile con loro, perché sono giorni che non torneranno più, mentre a coloro che hanno figli adolescenti suggerisco di parlarci sempre, anche quando si ha la sensazione che non ascoltino. Le parole sono “semini” che, a distanza di anni, possono salvare loro la vita. Non bisogna scoraggiarsi mai e parlare è il vero segreto.

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