In fondo siamo tuttƏ sessistƏ

La mia intervista a Flavia Brevi, fondatrice di Hella Network

Flavia Brevi hella network

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    Perché è importante una campagna pubblicitaria per l’8 marzo?

    Perché la Giornata Internazionale della Donna è il momento in cui, più che fare festa, si dovrebbe fare il punto della situazione sulla condizione femminile. E per la comunicazione commerciale è un po’ la prova del 9 per capire il nostro livello di superamento degli stereotipi: tutte le aziende si sentono in dovere di dire qualcosa a riguardo, fosse anche solo con un post social, ma è proprio lì che si vede quando è solo pinkwashing o quando manca la preparazione giusta per affrontare la questione. Le donne vengono spesso descritte come madri, mogli, sorelle, relegate continuamente alla sfera famigliare e togliendo il nostro essere persone complete, perché siamo sempre in relazione a qualcun altro. Inoltre veniamo raccontate come se fossimo una sola persona (quando siamo oltre 3 miliardi) che è tutto e il contrario di tutto (es: “alle donne, forti ma anche sensibili”), rafforzando la nostra immagine di “dolcemente complicate” (e che quindi a volte quando diciamo no intendiamo si.

    A tracciare questo quadro è Flavia Brevi, Head of Social Media in Cookies & Partners e fondatrice di Hella Network, un collettivo di persone che lavorano nel mondo del marketing, del giornalismo, dell’editoria e della pubblicità, che dal 2019 si sono unite per rendere il settore della comunicazione più inclusivo, non solo a parole, ma con fatti concreti. Una mission importante che trova nell’8 marzo una data simbolo: per il secondo anno consecutivo infatti Hella Network ha creato una guida – sotto forma di campagna- per mettere a fuoco criticità ed errori di comunicazione in merito ad uno specifico argomento riguardante la parità di genere.

    Sono nate così la “Guida all’8 marzo” (per aziende) uscita nel 2020 e la campagna “Sto solo facendo il mio lavoro” presentata il 5 marzo scorso durante l’evento WeWorld Festival

    Perché è importante non banalizzare una campagna per l’8 marzo?

    Perché qualcosa è cambiato: la sensibilità delle persone verso le tematiche di genere (o in generale d’inclusione) è cresciuta e grazie ai social network puoi essere cert* che se sbagli ci sarà qualcuno che te lo farà notare. Non serve nemmeno che sia influencer per scatenare una crisi di reputazione del brand.

    Parliamo della campagna “Sto solo facendo il mio lavoro” com’è nata e qual è il suo obiettivo?

    L’idea è nata da un post di Roberta Frau, partecipante del network, che aveva proposto una guida per la comunicazione nei posti di lavoro portando esempi reali, in cui ci si potesse identificare, per spiegare perché certe frasi o certi comportamenti ci mettono a disagio. Anche quando magari sorridiamo, anche se magari “c’è di peggio”. E il motivo per cui percepiamo quel disagio è che si tratta di forme di sessismo latente o addirittura benevolo, come quando ti viene fatto un complimento per il tuo aspetto fisico anziché per le tue competenze professionali.

    Lavorando alla campagna social abbiamo capito che il problema principale è il fatto che siamo tutt* sessist*, perché la nostra cultura è sessista, ed è difficile vedere l’errore se per una vita ti è stato mostrato come la normalità. Quindi abbiamo deciso di creare una multisoggetto fatta di “doppi standard” e di spiegare, nel testo di accompagnamento, il loro significato più profondo, quello che non riusciamo a vedere in superficie ma sedimenta gli stereotipi.

     

     

    Da un’analisi svolta in varie aziende statunitensi nel settore delle alte tecnologie, risulta che alle lavoratrici vengono più spesso rivolte critiche personali. A loro si consiglia di abbassare il tono e vengono giudicate “autoritarie, irritanti, stridule, aggressive, emotive e irrazionali”. Di tutti questi aggettivi, l’unico che compare nelle valutazioni dei dipendenti maschi è “aggressivo”, usato due volte “per esortare la persona in questione a esserlo di più                                                                                                           

     

     

    Un professionista padre viene percepito come una persona affidabile, che sa farsi carico delle proprie azioni, ma che comunque metterebbe il lavoro al primo posto. Dall’altra parte, si presuppone che sia la lavoratrice madre a doversi occupare della famiglia in caso di necessità. Questa visione non  giova a nessun genitore.

     

     

    Parlando di Hella Network

    Piccola confessione dovuta: faccio parte di Hella da ancor prima che il collettivo avesse un nome, in effetti sono parte di quel gruppo di persone che ha avuto l’onere e l’onore di scegliere il nome al network (e sì, un po’ me ne vanto). L’esigenza di avere un luogo (seppur virtuale) in cui potermi interfacciare con professioniste e professionisti che condividessero con me il disagio dato da un mondo in cui, purtroppo, la voce femminile è troppo spesso mutata a causa di retaggi e abitudini era forte. Tanto più che quel disagio lo vivevo sulla mia stessa pelle, ben mascherato da finti sorrisi e battute di dubbio gusto alle quali non era lecito né consentito ribattere: “certo potresti metterti un tacco e un tailleur ogni tanto, il capo sarebbe contento”, “si vede che hai il ciclo”, “portarti dai clienti è un piacere, sei così piccola e carina”(…)

    Hella mi ha permesso di capire che il disagio che provavo non solo era normale, ma condiviso, mi ha mostrato quanto anche io fossi autrice (a volte inconsapevole, altre no) di atti di sessismo nei confronti di altre donne, in altre parole, negli ultimi due anni mi ha resa più cosciente di quanto la nostra società sia impregnata di quella cultura patriarcale che i più giudicano superata e archiviata da tempo.

    Una pagina seguita da oltre 6000 persone, un gruppo di oltre 1500 membr* e diversi progetti all’attivo. Guardando indietro a due anni fa, sembra che l’esigenza di una realtà come questa fosse forte e continui ad esserlo tutt’ora. Tirando un po’ le somme, ti aspettavi un movimento così? Quali erano le tue aspettative rispetto al progetto?

    Sapevo che l’idea di fare gruppo tra professionist* della comunicazione per chiedere più parità era potente, ma non pensavo di essere la persona giusta per lanciarla. Per questo, anche se in realtà la covavo da un po’, ho preso tempo prima di pubblicarla; aspettavo che qualcun* più autorevole di me la proponesse, per poi unirmi. A un certo punto da idea è diventata necessità e non ce la facevo più a ignorarla. Ho capito che dovevo mettere da parte la sindrome dell’impostore e buttarmi: se la causa era giusta bisognava iniziare da qualche parte e ai miglioramenti ci avremmo pensato dopo.

    Ma proprio perché sapevo di non essere una figura di spicco, credevo che all’appello avrebbe risposto giusto qualche decina di conoscenze dirette con cui mi è capitato di collaborare negli anni. Invece, anche grazie alle segnalazioni di Domitilla Ferrari, Paolo Iabichino e altri nomi noti della comunicazione, si è attivato un passaparola che ha portato a 300 partecipanti iniziali. Le campagne e i progetti che abbiamo creato nel tempo hanno portato alla situazione attuale, coi numeri che hai citato. Quindi sì, come dicevi, probabilmente in tant* sentivamo l’esigenza di un Hella Network, bastava solo dare il la.

    10 punti da fissare quando parli di violenza di genere

    L’esigenza di parità non si limita, ovviamente, al mondo della comunicazione e purtroppo i fatti di cronaca ce lo dimostrano fin troppo bene.                                                                                                      Recenti dati Istat riportano che il 31,5% delle donne subisce una qualche forma di violenza fisica o sessuale durante il corso della vita: un dato triste, oltre che allarmante e che vede in Sonia Di Maggio, Ilenia Fabbri, Piera Napoli, Luljieta Heshta, Lidia Peschechera, Clara Ceccarelli, Deborah Saltori e Rossella Placati le ultime vittime di una lista che conta già 12 donne dall’inizio del 2021.

    Dar voce a queste e a tutte quelle donne e uomini che quotidianamente subiscono violenza ha dato vita ad uno degli ultimi progetti di Hella Network, non tanto perché la cronaca non riporti tali fatti, quanto perché spesso la violenza è mal comunicata. Pubblicato lo scorso 25 Novembre in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne il vademecum  “10 punti da fissare quando parli di violenza di genere”  riporta 10 diktat stilati da giornalistə e articolistə, contenenti attenzioni e regole che permettano una narrazione che non generi ulteriore violenza nei confronti delle vittime.

    10 punti da fissare quando parli di violenza di genere

    1-La violenza è un’azione, non una reazione: Non fare riferimenti all’abbigliamento della vittima, alle sue abitudini, a dove si trovava, con chi e perché crei un errato rapporto causa-effetto.

    2- La violenza non va romanticizzata: Non usare espressioni come “vendetta passionale” o “raptus di gelosia” perché la violenza di genere ha come unico movente la cultura patriarcale.

    3-Chiama un femminicidio col suo nome: Ogni volta che un uomo uccide una donna su cui pretende di avere il controllo, parla di “femminicidio”, non omicidio.

    4- Non confondere la vittima con il carnefice: Non creare confusione in chi legge. La retorica dell’incontro chiarificatore e dell’amore non corrisposto colpevolizza la donna e crea in chi legge un alibi all’uomo.

    5- Contano i fatti, non le opinioni: Pareri e commenti di parenti, amici e vicini dell’indagato non vanno riportati quando sono irrilevanti o addirittura fuorvianti, spingono a empatizzare con il colpevole.

    6- La violenza non va spettacolarizzata: Evita di soffermarti sui dettagli più macabri e morbosi: è un crimine e una tragedia con una vittima reale, non una fiction.

    7- Usa il linguaggio come un pennello, non come un’arma: Chiediti se useresti la stessa narrazione se la vittima fosse un uomo. E se è una ex, non definirla come “la compagna/moglie/fidanzata” del colpevole.

    8-Non rubare le foto dai social: Assicurati che l’immagine non implichi un giudizio morale sulla vittima e non mostrare foto dove appare felice insieme al carnefice.

    9-Non creare vittime di serie B: Concedi lo stesso spazio a tutti/e. Relegare a poche righe i casi di violenza quando riguardano sex workers o persone transessuali è una discriminazione.

    10-Allarga la narrazione: Metti in risalto anche le storie di donne che hanno denunciato e si sono sottratte alla violenza. Dai spazio alle attività dei centri antiviolenza. Ricorda le conseguenze delle violenze anche sui minori che assistono a questi casi.

    C’è qualcosa che sicuramente ti aspetti di fare (può essere una campagna a cui tieni o un obiettivo da raggiungere) grazie (e con) ad Hella?

    Ci sono problemi sistemici e sistematici come la disparità salariale, il soffitto di cristallo o il pavimento appiccicoso che vorrei debellare, ma che non riguardano solo il mondo della comunicazione, per cui sono consapevole che su questi abbiamo dei limiti oggettivi.

    Quello che il nostro settore può fare però, ed è tutto nelle nostre mani, è liberare la comunicazione dagli stereotipi e dai messaggi sessisti, iniziando a usare un linguaggio più inclusivo. Quindi sicuramente il focus di Hella sarà su questo.

     

     

     

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