In occasione della giornata mondiale contro il cyberbullismo, tenutasi il 7 febbraio, abbiamo intervistato Ilaria Di Roberto, vittima di Revenge Porn, Cyberbullismo e abusi perpetrati da una psico – setta di Catania nel 2019. Ilaria è una giovane donna poco più che trentenne, che ha visto cambiare la sua vita senza poter effettivamente averne il controllo, ma tutta la sua vita ha ruotato intorno a un mondo a “misura d’uomo”, che poco aveva da darle spontaneamente, se non violenza e abusi.
Ilaria ha deciso di condividere la sua storia personale con l’altra parte del mondo, quella pronta ad accoglierla, per dare una voce a chi non trova le parole per denunciare, per non far sentire sole altre persone che, come lei, hanno subito un tipo di abuso simile.
Chi sei e qual è l’esperienza che hai vissuto che ti ha permesso di arrivare fino a qui?
Mi chiamo Ilaria Di Roberto, classe 1990. Sono una ballerina, scrittrice, attivista femminista, survivor e, prima di ogni altra cosa, una Donna perennemente in lotta. La mia vicenda è diventata di dominio nazionale nel 2019: una storia di bullismo, disturbi alimentari, Revenge Porn, Cyberbullismo, diffamazione, truffe, abusi. Purtroppo, la mia vita è da sempre ruotata intorno al bullismo, alle violenze verbali e fisiche e agli abusi sessuali.
Durante le scuole elementari sono stata picchiata dai miei compagni di classe a causa del mio aspetto fisico (ero una bambina in sovrappeso) fino a dopo il liceo. Per questo, da adolescente ho sofferto di anoressia e ho fatto fatica ad accettarmi. A 17 anni, sono stata quasi violentata da un uomo, che per raggirarmi si è finto il mio datore di lavoro. Era il mio primo giorno di prova in un ristorante locale: il direttore effettivo era fuori da qualche settimana ed uno dei dipendenti, spacciandosi per il titolare, approfittò della sua assenza per propormi di lavorare come cameriera e, in un secondo tempo, per molestarmi.
Ringraziando il cielo, riuscì a divincolarmi e a scappare via. Non sono mai stata una ragazza estrosa: quel giorno non avevo una “minigonna”, ma un semplice pullover.
Tuttavia, come se tutto questo non bastasse, oggi sono conosciuta a livello nazionale per una vicenda ancora più sgradevole.
Nel 2016 conobbi un ragazzo su Facebook: lui era di Taranto, le occasioni per vedersi non erano molte, ma il nostro rapporto diventò sempre più intimo in seguito a delle conversazioni quotidiane su WhatsApp. Da qui, l’inizio del mio calvario. La distanza tra noi rendeva la nostra relazione piuttosto difficile, soprattutto da parte sua, fino a spingerlo ad avanzarmi richieste di foto in intimo e, più avanti, completamente nuda.
All’inizio mi opposi: mi sono sempre considerata indipendente ed emancipata, ma qualcosa mi spinse ad accontentarlo per paura di perderlo, e quando la situazione cominciò a peggiorare ormai era già troppo tardi. Lui mi chiedeva continuamente video e foto intime, e nonostante questo, non gli bastava mai. Quando mi lasciò ero devastata e caddi totalmente in depressione. Iniziai a ricevere messaggi sconvenienti da alcuni amici del mio ex ragazzo, e solo dopo scoprii di essere stata presa in giro e che le mie foto erano state diffuse in rete a livello virale senza il mio consenso. Scoprii che altre ragazze avevano subito lo stesso trattamento dalla stessa persona e trovai il coraggio di denunciare e dimenticare, grazie alla conoscenza di un altro ragazzo, al quale ho raccontato i fatti accaduti. Purtroppo, poco dopo le mie foto presenti su Facebook finirono su un sito porno, associate a immagini di altre ragazze nude, con nome e cognome della sottoscritta. La persona che avevo appena conosciuto finì vittima di hacking e bullismo: entrambi finimmo nel giro di un mirino spaventoso e il nostro sospetto cadde su una ragazza che lui aveva frequentato e che era molto gelosa della nostra amicizia.
Non denunciammo subito, con la speranza che quell’incubo potesse finire dopo poco. Invece, nostro malgrado, la storia continuò per più di un anno, così decidemmo di denunciare. Ho messo da parte amici, lavoro, un libro su cui stavo lavorando, per trascorrere tutto il mio tempo a segnalare ciò che stavamo entrambi vivendo. il ragazzo che stavo frequentando, invece, continuava la sua vita come se nulla fosse. Persi anche lui: tornò con la sua ex e magicamente i sui incubi finirono, mentre i miei si amplificarono. Bollata dalla società, umiliata e senza un lavoro, alcuni miei conoscenti facevano finta di non conoscermi e altri iniziarono a molestarmi. Ero fuori dal mondo: non mangiavo più per l’angoscia e la paura di quello che stavo vivendo,. Mi scrissero sulla porta del palazzo in cui vivevo “Ilaria sei una Pornostar devi morire” ed era quotidiano il ritrovo di escrementi, urine, profilattici usati, cicche di sigarette, zampe di gallina, gomme da masticare e petardi all’interno della mia cassetta delle lettere. In quel momento avevo bisogno di lavorare, per riprendere in mano la mia vita e fare qualcosa che mi distraesse. Trovati un posto di lavoro, dove mi truffarono e mi resero partecipe di un giro illegale e losco dal quale non riuscivo più a uscirne.
La mattina del 6 novembre 2019, a seguito delle mie numerose denunce pubbliche, arrivò in casa mia la polizia postale. Ero felicissima perché convinta che avessero buone notizie da darmi. Tutt’altro, mi dissero che c’era un mandato di perquisizione’ venivo accusata di Revenge Porn nei confronti del mio ex perché dai tabulati risultava che i profili fake creati nel periodo della nostra relazione partissero dal mio telefono. Queste accuse erano state avanzate da entrambi i miei ex, C’è da dire che la polizia postale quel giorno mise a soqquadro la casa, nonostante gli avessi consegnato spontaneamente ogni dispositivo. Sono stati di una brutalità disumana. Essendo mia madre buddista, abbiamo dei mantra sulle pareti e loro scrissero sul verbale che hanno trovato raffigurazioni esoteriche inerenti alla magia.
Quest’opera di deumanizzazione mi ha completamente annientato. Ad oggi, non riesco a comprendere come tutto questo sia potuto accadere.
Come ti ha cambiato questa esperienza e come ha inciso, oggi, sulla persona che sei?
Se iniziassi a propinare la retorica della vittima di violenza in via di rinascita, sarei poco onesta con me stessa e con tutti coloro che in questi anni, insieme alla mia famiglia, hanno creduto in me e mi hanno supportato. Le umiliazioni e le cattiverie subite mi hanno condotta a tentare due volte il suicidio e successivamente a chiudermi totalmente in me stessa, precludendomi l’amore insieme alla possibilità di riproporre gli stessi errori. Tuttavia, mai più in ottemperanza a ciò che questa società misogina e sessista si aspetta da me in quanto donna e vittima, sto cercando di riscattarmi e tornare ad essere la versione migliore di me, non troppo dissimile da quella di domani, ma sicuramente diversa da quella di ieri.
La psicoterapia mi ha permesso di compiere un viaggio introspettivo, insegnandomi a ravvisare un barlume di luce anche nel buio più logorante, di conoscere i miei mostri e accettare il problema della dipendenza affettiva, alimentando la mia autostima. Finora ho dedicato la mia vita a chi mi ha distrutta, accettando tutto quello che mi veniva inflitto. Adesso mi sento Ilaria a 360 gradi, non ho più bisogno di un uomo che mi completi.
Ho deciso di anteporre la mia persona a una relazione, la prossima che avrò dovrà essere sana, scevra da ossessioni e dipendenze. L’unico amore che voglio è quello che devo a me stessa.
Uno dei tuoi monologhi si intitola proprio “com’eri vestita”. In questi ultimi anni si parla molto di questo tema, a Milano è stata allestita una mostra con lo stesso titolo, con lo scopo di far riflettere su come l’abbigliamento di una donna possa incidere sulle motivazioni di un abuso sessuale. Cosa ne pensi?
In una società patriarcale come la nostra e in cui veniamo inevitabilmente addestrate ad omologarci, è importante provare a essere la voce fuori dal coro. Il mio libro si impegna, di fatto, a trasmettere un messaggio scomodo.
Con l’espressione “Victim Blaming” alludiamo a tutta quella serie di meccanismi che in un automatismo quasi fraudolento, si attivano a danno delle vittime che denunciano una violenza. Tali condotte, soventemente applicate dalla società patriarcale, si traducono in un quadro più ampio e complesso, ossia la cultura dello stupro, un paradigma culturale nel quale le violenze e gli abusi sono edulcorati e normalizzati attraverso l’erronea apposizione della sessualità alla violenza denunciata.
Un’identificazione che ci conduce inevitabilmente a considerare “romantici” o “sexy” atteggiamenti oggettivamente violenti e/o abusivi. Ed è qui che sostanzialmente entra in gioco la cultura dello stupro, la quale ci induce a pensare che sia possibile e pertanto anche accettabile che un uomo possa perpetrare violenza, in qualunque forma essa sia, o che sia colpa della donna, ad aver istigato un abuso simile. Basti pensare ai casi di Revenge Porn, nel contesto dei quali, si tende spesso a colpevolizzare la donna che ha inviato le foto anziché chi le diffonde senza la sua autorizzazione, spostando il focus dall’abuser alla vittima.
Questo argomento viene sapientemente affrontato in forma poetica all’interno del monologo “Com’eri vestita?”, la domanda che sovente viene rivolta a tutte le vittime di stupro. Difatti, nel brano una donna vittima di violenza sessuale si reca dalle forze dell’ordine per denunciare l’accaduto. Qui la stessa si interfaccerà con un ispettore che anziché accogliere il suo grido d’aiuto, le chiederà con un‘insistenza a dir poco inopportuna come fosse vestita al momento dello stupro, trasformando di soppiatto un episodio scabroso in un fatto totalmente ordinario, fomentato in una qualsivoglia maniera dall’abbigliamento della donna che all’improvviso si ritroverà impotente dinanzi al suo esercizio di potere.
Essere credute, ascoltate, tutelate, è fondamentale. Ci sono molti strumenti per gridare a gran voce quelle che sono le ingiustizie che sovente subiamo. Ogni violenza viene normalizzata e parte della colpa viene comunque affidata alla vittima. Occorre agire e in fretta, partendo dal linguaggio, perché alle volte le violenze partono dalle parole che ci vengono rivolte e quasi mai, riconosciute come “violente”.
Spesso si sente dire che chi subisce un abuso o una violenza si colpevolizza dell’accaduto. È stato così anche per te? Se si, cosa ti ha fatto cambiare idea?
Ogni giorno il mio paese mi denigra, facendomi sentire emarginata. Non è stato ancora preso alcun provvedimento contro chi mi sta distruggendo la vita. A fare male di più è la sensazione di avere tutti contro e di sentirsi abbandonata anche da chi avrebbe il dovere di proteggermi. Le autorità competenti, dopo aver sentito la mia storia, mi guardano con scetticismo. Senza parlare dei commenti offensivi che ricevo giornalmente da tutte quelli che credono stia solo cercando di ottenere un pizzico di notorietà. Non ho mai visto così tanta cattiveria. Non nego che tutto questo mi faccia stare ancora male. Sono stata picchiata, minacciata, bollata come poco di buono e accusata di utilizzare la mia vicenda personale come pretesto per sbarcare il lunario. Molti di loro mi intralciavano il passaggio con la pretesa, avendo visto le mie foto diffuse sui siti porno, di portarmi al letto pagandomi. Sono stata minacciata di morte mentre facevo spesa, quando andavo a buttare l’immondizia o anche solo dopo aver preso una boccata d’aria fuori in balcone. Non esagero quando dico che vivere in un monastero di clausura sarebbe senz’altro più edificante.Quindi si, a volte mi sono sentita colpevole di quello che mi è successo. Ma so benissimo che la colpa non è mia.
Ci sono molti strumenti per gridare a gran voce quelle che sono le ingiustizie che sovente subiamo. Ogni violenza viene normalizzata e parte della colpa viene comunque affidata alla vittima.
Di “Revenge Porn” si sa ancora molto poco, e se ne sente parlare ancora meno nelle scuole. La disinformazione porta chiaramente al silenzio sull’argomento. Puoi aiutarci a capire di più su questo tema? qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
Ll’unica peculiarità che distingue il revenge porn dalla violenza «classica» e quindi dallo stupro è che la prima si configura per via telematica e quindi mediante l’ausilio di dispositivi elettronici. Ora, mentre nel reato di stupro, la vittima viene penetrata corporalmente con la forza e in maniera non consensuale, nel caso del Revenge Porn, (ossia la diffusione illecita di immagini o video a sfondo pornografico, destinati a rimanere privati) il «non consenso» viene espletato dall’aggressore con l’ausilio di dispositivi informatici, finalizzati alla diffusione. Pertanto non è retorico, né ancor meno radicale parlare di «stupro di gruppo» poiché la condizione di anonimato e l’immediatezza con cui tale materiale viene divulgato attraverso la rete, determina l’insorgenza di ulteriori «aggressori», i quali si appresteranno, come di consuetudinaria amministrazione, a diffonderlo a loro volta in lungo e in largo, generando una catena infinita di condivisioni.
Nel caso del revenge porn, la diffusione del materiale si configura in maniera illecita, pertanto NON CONSENSUALE. Ma perché il Revenge Porn è grave tanto quanto lo stupro? Dal momento in cui il consenso viene a mancare, la responsabilità si concentra sul carnefice, ovvero su chi si adopera nella condivisione illecita di tale materiale. Ed esattamente come nei reati di stupro, non esistono gonne, abito, sorrisi, promiscuità, alcol, droga, foto, video che possano graziare il carnefice. Non esiste attenuante che tenga, mitighi o giustifichi una violenza di tale portata. Mai. In nessun caso. Senza “se”. Senza “ma”. È violenza. Punto.
Mi chiedi se ai giovani sconsiglierei mai di inviare foto o video ai propri partner!? certo che no! ALLE giovani suggerirei di sentirsi libere di esplorare e manifestare la propria sessualità come meglio credono. Piuttosto, è AI giovani di sesso maschile che impartirei con rigore qualche lezione di educazione digitale e alla parità di genere, ma soprattutto proporrei un bell’addestramento alla cultura del consenso con obbligo di frequentazione. E questo perché tutti comprendano che una piaga sociale millenaria come quella della violenza di genere, va arginata da chi la attua. Non evitata da chi la subisce.
Il tuo libro “tutto ciò che sono” è uscito da poco. Qual è il suo scopo? Cosa ha da dire al mondo?
Quando mi domandano la ragione per cui abbia scelto di intitolare il mio libro “Tutto ciò che sono” rispondo sempre che quest’opera – oltre ad essere la risultanza di un trascorso permeato da un numero indefinito di violenze – rappresenta realmente tutto ciò che è l’autrice.
E lo fa a 360 gradi, senza alcuna inibizione, senza giustificarsi, senza domandare scusa o chiedere il permesso, senza sforzarsi di regalare delucidazioni in cambio di comprensione.
Trattasi di un viaggio di natura fortemente introspettiva, definire quest’opera uno “specchio” sarebbe alquanto riduttivo.
All’interno dell’opera mi impegno, con modalità talvolta sfacciate, a deludere quelle aspettative a cui ho cercato di ottemperare tutta la vita per restituire un nuovo volto ad un’immagine defraudata, violata, marchiata nella sua integrità a causa delle violenze subite – in rete quanto nella vita reale – e mi accingo, in maniera quasi selvaggia, ad irrompere attraverso un mix di rabbia e ironia nelle coscienze e nelle menti, contribuendo al disfacimento di tutti quegli stereotipi che, volente o nolente, hanno incoraggiato la cancellazione della mia identità. “Tutto ciò che sono” offre un’accurata visione del mio mondo e lo fa in maniera netta, dettagliata, imponendo in alcuni momenti il silenzio, in altri l’empatia e alternando al racconto delle mie drammatiche esperienze, il contraccolpo di un viaggio evolutivo tessuto di sogni, speranze disattese e tentativi di ribellione non sempre andati in porto.
Iniziai a scrivere questo libro la sera del mio primo tentativo di suicidio, dovuto perlopiù all’ingente vittimizzazione perpetrata a mio danno dall’opinione pubblica. Le rispondo con uno stralcio tratto dal mio libro: “La scrittura è quella nobile arte che ti permette di metterti a nudo senza toglierti i vestiti”. Per me la scrittura – così come il ballo e l’arte in senso lato – ha sempre avuto un ruolo salvifico. Mi ha salvata in un numero indefinito di occasioni: la sera del mio primo tentativo di suicidio; quando tra i banchi di scuola ero vittima dei bulli e infine quando trovai il coraggio di denunciare i soprusi subiti. A dispetto delle vicissitudini e di tutte le difficoltà che richieda un viaggio introspettivo, è sempre stata un‘arma di difesa, nonché uno strumento di rivalsa, ribellione, liberazione e denuncia sociale.
Nelle mie opere, l’empatia ha un ruolo determinante. Come già espresso, tendo a far sì che chi mi legga, possa interiorizzare il mio vissuto, le mie esperienze.
Se potessi dire qualcosa a donne che hanno subito esperienze simili alla tua, ma che non hanno trovato il tuo stesso coraggio di fare del loro vissuto una voce, cosa diresti loro?
Voglio ricordare loro, in primis, che non siamo aspettative sociali. Prima di essere vittime, madri, moglie e donne, siamo individui dotati di anima, mente e corpo, liberi di manifestare la propria identità come meglio credono. Anche la propria sessualità! Anteporre le donne nella nostra battaglia significa collocarle in una posizione di rilievo (da sempre negata) a partire dalle relazioni interpersonali, fino ad arrivare alle questioni di carattere economico, sociale e politico.
Come donne possiamo scegliere arbitrariamente se procreare o meno; se sposarci e decidere di avere una relazione «fissa» o limitarci ad avere rapporti occasionali; se puntare sulla carriera o decidere di non fare assolutamente nulla. Come già espresso, non esistono leggi o dogmi ai quali ottemperare. Ciò che contrastiamo è l’obbligo di fare o non fare qualcosa. Il fatto di decidere di avere o meno dei figli non deve essere una tappa incorporata, né ancor meno obbligata: come femministe rivendichiamo per noi e per tutte le donne, il diritto all’autodeterminazione. Per questo ribadisco, siate ribelli, sfacciate e libere!
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Per troppo tempo mi sono estraniata dal mondo, privandomi di quella felicità che meritavo di avere, quindi ho intenzione di riprendere in mano le redini della mia vita, con una visione più matura e responsabile, lontana dalle ingerenze di una società manipolatrice. Voglio riprendere a ballare, attività che ho smesso di svolgere dall’inizio di questa storia che ha praticamente distrutto gli ultimi due anni della mia vita. Ho intenzione di continuare a fare quello per cui sono nata, danzare, cantare, scrivere e mettere su carta il mio mondo interiore. Sto lavorando a diversi romanzi, “Al di là del bene e del male” – una trilogia paranormale, “L’alba dei morti di figa” un saggio umoristico che analizza quegli che sono gli approcci degli uomini con le donne in rete, “Il diario di Coraline” un romanzo sulle relazioni tossiche che rasenta il tema dell’autismo e “Sola contro tutti”, autobiografico. Voglio mettere la mia esperienza a disposizione di chi si sente di non poter uscire da questo vortice, creando uno sportello psicologico a supporto delle vittime e in futuro anche battermi per un decreto, e in particolar modo per l’inasprimento delle leggi a sostegno delle vittime di violenza. Non abbiamo bisogno di cambiarci d’abito, solo di pene più severe nei confronti di chi pensa di vantare su di noi chissà quale primato.
Come già esplicitato in diverse occasioni ho intenzione di continuare a promuovere il mio libro anche nelle scuole, dove ho già tenuto diversi convegni. Ritengo che la violenza vada contrastata già a partire dai primi luoghi educativi, in primis scuola e famiglia. Alcuni meccanismi e automatismi di violenza vanno scardinati dalla radice. L’educazione alla parità di genere è fondamentale. A Marzo sarò a Milano presso la Libreria Ecate Caffè Libreria. Auspico dal profondo che questo libro diventi una manifesto per tutte e tutti e chissà, magari che venga trasformato in un film. Sarà dura, ma non demordo.
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