I sociologi lo chiamano “inverno demografico“, ovvero sempre meno nascite in Italia e una popolazione che continua, inesorabilmente, a invecchiare. Mentre si sta ridisegnando, anno dopo anno, l’idea di famiglia nel Belpaese.
Risultato? Tre quinti dei bambini non avranno dei fratelli, ma probabilmente nemmeno cugini e zii, e si dovranno accontentare (anche se in realtà è una grande ricchezza) di genitori sempre più in avanti con l’età, di nonni e bisnonni. Ma non è finita qui. Secondo uno scenario Istat, infatti, a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19 le nascite potrebbero calare ulteriormente di oltre 10 mila unità. E peggiorare, pesantemente, la situazione. Si stima, infatti, che al 1° di gennaio 2020 la popolazione italiana sarà di circa 60 milioni, 116 mila in meno rispetto all’anno precedente. Le nascite risultano essere decisamente inferiori rispetto ai decessi: 435 mila contro 647 mila, segnando, purtroppo, un nuovo record negativo, con una diminuzione di 20 mila unità rispetto al 2019 (– 4,5%). Un trend destinato ad aumentare.
Già oggi (sono aspetti evidenziati nel Libro bianco “La salute della donna – La sfida della denatalità”, realizzato da Fondazione Onda, Osservatorio Nazionale sulla salute della donna e di genere, grazie al supporto di Farmindustria) per 100 bambini di età inferiore ai 15 anni ci sono 161 over 64 e tra vent’anni il rapporto sarà di 100 a 265, facendoci salire sul podio di secondo Paese più vecchio al mondo. Si allunga, sempre più, anche l’età media delle madri al parto, mentre il numero di figli per donna (tasso di fecondità) rimane costante, pari a 1,29. Il numero di figli scelto dalle coppie resta sempre fermo a due, evidenziando un significativo divario tra quanto si vorrebbe e quanto si riesce a realizzare: ben il 46% degli italiani che sceglie di procreare desidererebbe due figli, il 21,9% tre o più, mentre solo il 5,5% vorrebbe avere solo un figlio.
“La denatalità, come la definiscono gli esperti, è diventata una delle sfide più importanti e urgenti che il nostro Paese deve affrontare, resa ancora più complessa dalle conseguenze socio-economiche della pandemia e dalla crescita della disoccupazione come ‘effetto collaterale’ del clima di disagio e di insicurezza materiale“, commenta Francesca Merzagora, presidente della Fondazione Onda. Che aggiunge: “Il costante calo annuale delle nascite che si registra in Italia, causato dalla riduzione delle donne in età fertile, dal basso indice di fecondità e dal basso livello di occupazione femminile, avrà un impatto anche sul piano economico: a fronte di un invecchiamento progressivo della popolazione e di questo calo delle nascite, avremo una minore forza lavoro con sempre più anziani e meno giovani. Il Ddl Family Act è ad oggi il primo intervento concreto a sostegno delle giovani coppie”.
“Siamo passati dal baby boom degli anni Sessanta al baby flop moderno – sottolinea con un filo di preoccupazione il presidente della Società Italiana di Neonatologia, Fabio Mosca -, tanto che la denatalità italiana è una realtà sempre più sentita, tangibile e angosciante. Siamo tra i Paesi che fa più a meno di figli al mondo! In poco più di 50 anni la situazione è profondamente cambiata, in peggio. Una questione non solo demografica, ma principalmente sociale ed economica, causata dalla mancanza di politiche organiche e continuative di sostegno alla famiglia e alle donne-madri”.
Professor Mosca, qual è il timore più grande se si pensa al calo delle nascite?
L’effetto più negativo sulla società italiana non è tanto la diminuzione della popolazione complessiva quanto, appunto, il suo progressivo invecchiamento. Siamo il Paese più senile insieme al Giappone, questo comporta un aumento dell’assistenza sanitaria con costi enormi per lo Stato e un probabile tilt, futuro, di Welfare e Sistema sanitario. Se non corriamo ai ripari, saremo un popolo di soli anziani e con tanti problemi seri da risolvere.
La denatalità è un problema sociale, di tutti.
Mi ripeto. Se non saremo in grado di frenare questo processo di invecchiamento, avremo la conseguente produzione di una quota insufficiente di nuovi lavoratori. Senza tralasciare il fatto che sono circa 10 milioni le donne costrette, ad oggi, a rinunciare al lavoro o che lo perdono a causa dell’impossibilità di conciliare famiglia e lavoro. Non a caso, l’Italia figura tra gli ultimi Paesi europei per numero di donne occupate.
Per questo le donne non fanno figli o optano per averne uno solo?
Le donne sono davvero scoraggiate, perché consapevoli di quanto sia complicato gestire contemporaneamente i tempi di vita e di lavoro. Sempre più spesso, hanno difficoltà ad allattare oltre ai primi mesi di vita o ad avere un secondo figlio.
La condizione sociale ed economica incide sicuramente?
Sì, certo che incide, ma la scelta di avere uno o più figli non dipende solo da questo. Piuttosto, dal livello di benessere generale, cioè dalla qualità della vita che possono avere e offrire alla prole. Standard ai quali, oramai, è quasi impossibile rinunciare. E se una donna non lavora, la qualità di vita è 90 casi su 100 più scadente. Oramai è un dato di fatto: a bassi tassi di occupazione femminile corrispondono bassi tassi di fecondità. E in Italia solo il 48,9% delle donne in età fertile lavora, contro una media del 62,4% dell’Unione europea.
Quanto costa crescere un figlio?
Molto, a volte troppo. E un genitore, prima di mettere al mondo un figlio, vuole essere in grado di offrire tutto quello che una società come quella moderna può richiedere. Il costo di una gravidanza è di circa 2000 euro, dai 7 ai 13 mila euro sono investiti nel primo anno di vita del bambino, più di 100.000 euro costa portare un ragazzo alla laurea. Tanti soldi, ecco perché prima di fare un percorso di procreazione una coppia cerca e pretende un lavoro sicuro. Per questo, serve, con urgenza, un progetto e politiche a favore dei giovani e soprattutto per le donne. Che siano madri protette, che siano madri coccolate!
Donne che, dicevamo, diventano madri sempre più tardi…
L’età media del primo figlio è di 32 anni, nemmeno ottimale per una donna. Dobbiamo per forza anticiparla, spingere le ragazze a cambiare mentalità e abitudini. Servono anche in questo senso politiche per la casa che favoriscano l’uscita dal nido materno e paterno e politiche di sostegno per il lavoro che consentano loro di diventare autonome. Successivamente ci sarà bisogno d’interventi di aiuto, rivolti anche a congedi paterni (attualmente portati a 7 giorni, ma siamo sempre indietro rispetto ad altre realtà europee. Dal 2121, in Francia, il congedo paterno sarà per esempio di 21 giorni). Serve condivisione tra donne e uomini, maggiore collaborazione tra i partner. La donna, madre, deve essere messa al centro del sistema. Bisogna mettere papà e mamma in condizione di poter gestire gli impegni personali e di lavoro, dando maggiori servizi (asili nido con orari idonei, sostegno non solo economico) e più ausili.
Cosa potrebbe cambiare con il Family Act?
Con il Family Act del 2020 è stato finalmente compiuto il primo passo concreto per sostenere la genitorialità e mettere la famiglia al centro del futuro dell’Italia. Teoricamente potrebbe quindi cambiare molto, ma dipenderà dalle risorse che verranno messe a disposizione. A differenza degli interventi fatti e previsti in passato, questa legge delega non prevede bonus solo per i primi mesi di vita ma facilitazioni più ampie. L’idea del governo è buona sulla carta, ma occorre utilizzarla bene, creando anche minore pressione fiscale. In altri Paesi, chi ha più di due figli paga meno tasse. Hanno un sistema di servizi che li aiuta e più facilmente si fanno figli. Dobbiamo prendere esempio. Non mettere la testa sotto la sabbia, ma agire concretamente. Altrimenti, andremo alla deriva!
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