Commettere errori è facile. Può capitare a tutti, perfino se uno ha le migliori intenzioni del mondo. Siamo in fondo esseri umani. Il perdono è alla base di molte relazioni, purché non venga utilizzato per incrementare le radici di un legame tossico. Ci sono persone che sono più portate a perdonare e altre, invece, che non ne sono in grado. Ma per oggi, occupiamoci un attimo del primo gruppo: coloro che perdonano tendono a scusare gli altri, ma non riescono in alcun modo a perdonare se stessi quando commettono un errore. Queste persone sono le prime a fare i discorsi motivazionali più belli e passionali – ben diversi dai “people pleaser”, che cercano invece di accontentare gli altri per un bisogno estremo di accettazione – ma non riescono a farli con se stesse. Non riescono a praticare l’autocompassione. Si tratta di un processo lungo e difficoltoso, che passa attraverso diverse fasi.
Che cos’è l’autocompassione?
La compassione è spesso confusa con la pena, ma in realtà implica l’empatia e il desiderio di alleviare la sofferenza, senza creare una differenza di rango tra chi prova compassione e chi la riceve. Un’altra definizione di compassione aggiunge l’accettazione delle emozioni difficili, la consapevolezza dei pensieri giudicanti e l’impegno verso una vita significativa.
Kristin Neff, psicologa americana ed esperta nella pratica della compassione, identifica tre componenti chiave: gentilezza verso se stessi, umanità comune e consapevolezza.
Se la compassione è dunque un’azione che muoviamo verso gli altri, l’autocompassione è dunque la capacità di perdonarsi, essere gentili e indulgenti con se stessi. Coinvolge l’empatia verso le nostre azioni, l’auto-gentilezza, la consapevolezza di essere umani e di poter sbagliare e, soprattutto, la gestione dei pensieri negativi.
In generale, l’autocompassione è uno strumento essenziale per il benessere psicologico e il miglioramento della relazione con il proprio essere. Spesso si tende a non perdonarsi, arrivando alla consapevolezza che molte delle nostre azioni non si confanno alla maggior parte delle situazioni sociali: ci sentiamo esclusi, senza un posto proprio. Questo genera una profonda ansia, che conduce a un isolazionismo estremo. Tutto ciò è dovuto all’impossibilità di poter elaborare tratti della personalità che risultano difficili, portando a una ruminazione in negativo dove si finisce in un circolo di pensieri legati a situazioni sociali future in cui tenderemo sempre a sbagliare. Si tende a essere critici con noi stessi e a non perdonarsi tratti del carattere che, semplicemente, fanno parte di noi. È qui che entra in gioco il processo di autocompassione.
Benefici dell’autocompassione
La pratica dell’autocompassione porta a diversi effetti positivi, tra cui un approccio più ottimistico alla vita, una maggiore soddisfazione e una riduzione dell’ansia, della depressione e dello stress.
L’autocompassione non solo allevia il disagio mentale, ma contribuisce anche allo sviluppo del benessere. Contrariamente a quanto si possa pensare, non priva della motivazione per migliorare; uno studio condotto presso l’Università della California ha dimostrato che le persone in grado di praticare l’autocompassione sono più motivate a migliorare dopo un fallimento. Inoltre, l’autocompassione promuove il miglioramento delle relazioni interpersonali, poiché le persone sono più propense a chiedere scusa e a riconoscere i propri errori, senza sentirsi schiacciate da essi. Offre una sensazione di sicurezza, consentendo di affrontare i fallimenti con l’atteggiamento di “come posso ripararlo?”, invece che autocondannarsi.
Come essere gentili con se stessi per vivere meglio
L’autosabotaggio può avere molte radici, spesso legate alle esperienze dell’infanzia o del passato. Ciò che è certo è che l’assenza di autocompassione crea un ciclo negativo difficilmente interrompibile. Inizia con un forte sentimento di rabbia e di frustrazione, che porta in seguito all’isolamento, evidenziando il legame tra mancanza di fiducia e solitudine. Successivamente, si sviluppa un comportamento irresponsabile, in cui si evita di riconoscere le proprie responsabilità e si attribuiscono agli altri le proprie sofferenze. Questo atteggiamento può portare al disprezzo di sé, rendendoci vulnerabili, e infine alla perdita di speranza e di obiettivi, il passo che ci porta a spegnere la nostra luce interiore.
Per iniziare a praticare l’autocompassione, è essenziale sviluppare la consapevolezza. Il primo passo è riconoscere il giudice interiore, quella voce critica che ci sgrida e colpevolizza con pensieri negativi. La meditazione, in particolare la mindfulness, può aiutare a coltivare tale consapevolezza. Ma non fermiamoci unicamente a questo: è altrettanto importante allenare un dialogo compassionevole con noi stessi, creando una voce gentile e comprensiva che rispetti i nostri bisogni. Frasi come “Capisco e riconosco quanto sia difficile per me” o “Posso accettare i miei errori” contribuiscono a far nascere in noi un profondo rispetto.
Infine, se affrontiamo situazioni di forte sofferenza fisica o vogliamo esplorare ulteriormente questo argomento, è sempre consigliabile consultare un esperto con competenze specifiche, come uno psicologo o uno psicoterapeuta, o professionisti con formazione nel settore
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