Quando mi sento telefonicamente con Martina Fabbri è il tramonto, l’attimo incerto in cui giorno e notte si danno il cambio. Un tempo sospeso che si ripete da sempre con impeccabile routine, perfetta metafora del momento storico che stiamo vivendo e dell’argomento di questo articolo.
Mentre il mondo è in attesa di conferme dopo l’annuncio di un vaccino contro il Covid-19, la nostra quotidianità è scandita da decreti presidenziali, zone rosse, arancioni e gialle, che non solo ci ricordano che la pandemia mondiale che ci portiamo dietro da marzo è tutt’altro che finita, ma che ci costringono a reinventare i nostri tempi e spazi lavorativi.
Così con Martina, psicologa clinica con una passata esperienza nella selezione e reclutamento del personale in una multinazionale (oltre che nostra redattrice), abbiamo affrontato il tema sempre caldo dello smart working da casa, con consigli si spera il più utili possibili per chi, in questo periodo, è costretto a lavorare dalla sua abitazione.
L’importanza di stabilire degli orari
‘Da donna noto subito un vantaggio con lo smart working’ mi premette ‘C’è una maggiore flessibilità e ovviamente più tempo di stare con la famiglia, soprattutto se il posto di lavoro è lontano, si è pendolari e servono mezzi per spostarsi’.
Certo. Ma c’è il rischio di perdere l’equilibrio che si crea nella classica quotidianità , per cui una volta rientrati tra le mure domestiche ci si dimentica delle questioni lavorative.
‘È chiaro che l’assenza di un orario predefinito rischia di mettere il lavoratore nella condizione di essere bombardato continuamente di richieste, senza riuscire a fare una distinzione’.
La soluzione è quindi quella di ‘mantenere la routine e gli orari abituali, come se ci si dovesse recare nel proprio posto di lavoro’ che, per andare sul pratico, significa ‘definire dei rituali di inizio e di fine lavoro, non andando oltre le ore previste o facendosi distrarre dai commenti di casa. Questo è importantissimo’.
Una chicca che Martina mi confessa aver imparato a un corso: ‘Inserire nella stanza di lavoro un oggetto, ad esempio una luce all’angolo di un tavolo. Quando inizi a lavorare la accendi, e la spegni appena finisci di lavorare. Il cervello fa un’associazione e questo ti permette, inconsciamente, di staccare e riattaccare’.
L’abito fa lo smart worker
Se è vero che l’abito non fa il monaco, il discorso è diverso quando si parla di smart working.
‘Il rischio’ mi spiega Martina ‘è che io possa tendere a rimanere in pigiama tutto il giorno o comunque lasciarmi andare, amplificando l’isolamento e finendo in una bolla, quella famigliare e lavorativa insieme’ per cui ‘non hai più il bisogno di starti a preparare, perché tanto non ti vede nessuno’.
‘Il consiglio importantissimo’ conclude su questo punto ‘è quindi quello di mantenere una routine. La mattina mi alzo e faccio le stesse cose che faccio se andassi a lavoro e la cura della persona deve essere la medesima. Questo perché dal punto di vista psicologico aiuta anche a sentirsi meglio, a vedersi meglio e ad avere un atteggiamento più propositivo’.
A ognuno il suo spazio
Se poi tra le difficoltà dello smart working c’è anche quella di una mancanza di confronto con i colleghi (‘e quindi un senso forte di isolamento’), non possiamo certamente non soffermarsi sull’importanza della definizione degli spazi lavorativi in casa.
Per affrontare la questione, Martina mi cita una ricerca condotta da LinkedIn sull’effetto dello smart working, i cui dati sono stati resi pubblici nel maggio 2020 e attestano (tra le altre cose) che il 46% dei 2.000 intervistati si sentiva più ansioso e stressato di prima.
‘Anche perché proprio questa mancanza di spazi e di organizzazione dettate dall’azienda, ti porta a lavorare di più, perché ti distrai maggiormente e quindi per paura di non aver fatto un lavoro soddisfacente, tendi a lavorare anche di più. Il che non vuol dire che il risultato sia più soddisfacente’.
Trovare il proprio spazio in casa diventa dunque decisivo.
‘Sarebbe l’ideale adibire una stanza in cui mi reco quando vado a lavorare, perché il cervello si sintonizza sul fatto che è lì che si lavora. Aiuta, mentalmente, a configurare la situazione “lavoro”, distaccata da quella “famigliare”‘.
E per chi ha figli (magari piccoli)?
‘Con i bambini è sicuramente utile disegnare insieme a loro un cartellone da appendere alla porta del proprio spazio quando si lavora. Quando è appeso alla porta, significa che la mamma sta lavorando. Con i figli più grandi si può invece parlare apertamente della questione’.
Occhio alle distrazioni
La notifica, però, anche quando si è nell’abito da lavoro e isolati dal resto della casa, è dietro l’angolo. Tra le chat di Whatsapp e i vari social si rischia di ‘perdere del tempo che invece dovresti dedicare al lavoro. Quindi sarebbe auspicabile, ad esempio, creare due profili diversi nello stesso computer, tra personale e lavorativo. L’ideale sarebbe, nell’orario di lavoro, visto che la maggior parte delle persone hanno un telefono aziendale, lasciare in modalità aerea, o quantomeno silenziosa, il proprio cellulare personale, proprio per evitare distrazioni da tutto quello che è esterno’.
Alla fine, però, il punto cruciale è un altro. ‘Quelle ti ho dato sono linee guida’ mi dice Martina quando la nostra chiacchierata è arrivata al termine ‘ma quello che gioca un ruolo fondamentale è il senso di responsabilità personale di ognuno. Quindi il consiglio è quello di puntare tutto su quest’ultima cosa, cercando di non procrastinare quelle che sono le cose da fare’.
Il sole intanto è calato e io da buon redattore smart worker svesto i panni di lavoro che son solito portare.
Per oggi ho finito la cose da raccontare.
Per saperne di più sullo smart working e leggere alcune testimonianze di come è stato affrontato dai genitori durante il primo lockdown di marzo 2020 ecco l’articolo di Silvia Smart working e Bambini: un binomio fantastico raccontato da mamme e papà in quarantena , altrimenti potreste trovare interessante la disamina di Federico Smart Working: tra emergenza e ottimizzazione lavorativa
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